Che Cosa mi Vuoi Dire?

Scopri il Linguaggio delle emozioni che i tuoi amici a 4 zampe usano per relazionarsi con te

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Che Cosa mi Vuoi Dire?  Stefano Cattinelli   Macro Edizioni
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Introduzione
PARTE PRIMA: LE EMOZIONI
Capitolo 1 - L'incontro con gli animali
- Una dimensione tipicamente umana
- Dal razionale all'emozionale
- L'onda animale
- ...individuale
Capitolo 2 - Gli animali si muovono dentro la nostra vita
Capitolo 3 - L'alfabeto animale
- Emozioni come linguaggio comune
- Emozioni base
Capitolo 4 - Risuonare insieme
Capitolo 5 - Dal senso di colpa alla responsabilità
PARTE SECONDA: PERSONAGGI E IMMAGINI
Capitolo 6 - Personaggi
- Il controllore
- La vittima
- L'osservatore
Capitolo 7 - Immagini: vere o virtuali?
- Il giardino interiore
Capitolo 8 - Immagini individuali
Capitolo 9 - Ritornare bambini
Capitolo 10 - L'immagine animale nel sogno lucido: il gioco delle tre parole
Appendice - Cosa sono i fiori di Bach?
Ringraziamenti - Biografia degli Autori - Bibliografia

 

Stiamo attraversando un momento di grande cambiamento nella relazione con il regno animale.

Ora anche in Italia, a livello collettivo, le scelte nei confronti degli animali toccano le questioni alimentari e moltissime persone hanno preso le distanze dal consumo di carne e/o i suoi derivati.

Anche per quanto riguarda le scelte terapeutiche si sono aperte nuove possibilità e viene sempre più richiesta una preparazione specifica da parte del veterinario: Omeopatia, Fiori di Bach e/o Medicina Tradizionale Cinese. Si tratta insomma di una vera e propria rivoluzione culturale nel modo di intendere il mondo del benessere animale.

Abbiamo finalmente capito che qualunque scelta noi facciamo, o non facciamo, nei confronti dei “nostri” animali, risuona all'interno della nostra relazione. Tra me e lui: io che scelgo per lui e lui mi aiuta a capire le giuste scelte da fare. Non siamo più due mondi distinti e paralleli.

Abbiamo capito che esiste un linguaggio comune, quello delle emozioni, che ci permette di relazionarci e interagire in maniera profonda ed empatica con i nostri amici a 4 zampe.

L'autore, veterano nel campo della veterinaria, ci racconta tante storie di esperienze reali vissute con i suoi pazienti a 4 zampe e i loro padroni per aiutarci a comprendere sempre meglio il legame profondo tra le nostre e le loro emozioni.

Decifrare il linguaggio nascosto delle emozioni animali ci permetterà di amarli al meglio e di imparare, di riflesso, ad amare di più noi stessi.


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Stefano Cattinelli



torna suCapitolo 3 - L'alfabeto animale

«Gli animali, al contrario degli esseri umani, nel mondo si sentono a casa propria». Rainer Maria Rilke

Emozioni come linguaggio comune
Alla fine degli anni Sessanta, l'antropologo Paul Ekman è andato a vivere in mezzo a una tribù di papuani, indigeni cacciatori e raccoglitori che vivevano come all'età della pietra in una regione montagnosa della Nuova Guinea. Le teorie favorite dagli antropologi di quel periodo sostenevano che le emozioni e il modo di esprimerle venissero appresi con l'educazione e che quindi avrebbero dovuto variare secondo la cultura. Con l'aiuto di un traduttore, «Ekman chiese all'indigeno di mimare davanti all'obiettivo l'emozione che avrebbe provato in una situazione del tipo: sei arrabbiato e pronto a combattere. Il papuano aggrottò le sopracciglia, digrignò i denti e strinse le labbra in una smorfia minacciosa». Per evitare le potenziali incomprensioni della traduzione, Ekman fece vedere al papuano anche dei disegni chiedendo al soggetto di mimare le espressioni facciali corrispondenti. Tutto il materiale raccolto fu portato negli Stati Uniti e, attraverso ulteriori studi, ci si accorse che la maggior parte degli americani poteva riconoscere nelle espressioni facciali del papuano le emozioni corrispondenti. Lo studio continuò coinvolgendo ventuno civiltà diverse sparse nei cinque continenti e alla fine i ricercatori decretarono che le emozioni sono un patrimonio comune dell'umanità, senza alcuna distinzione di razza, sesso e cultura. Ecco perché un malese riconosce le emozioni di un francese che riconosce le emozioni di un canadese che riconosce quelle di un cinese ecc. Le emozioni sono dunque un linguaggio universale; questo linguaggio si muove sia orizzontalmente, da uomo a uomo, a prescindere dalla razza e dalla cultura, sia verticalmente, attraverso la relazione con l'animale che vive con noi. Senza voler togliere nulla ad alcuno, gli animali con i quali è più facile comunicare, quelli cioè che attraverso il loro movimento esteriore fanno vedere in maniera chiara quello che vivono dentro, appartengono alla classe dei mammiferi (cane, gatto, cavallo, elefante, mucca, scimmia, asino ecc.). I mammiferi, grazie anche all'esperienza dell'accudimento della prole, sono sicuramente il gruppo di animali che maggiormente ha la possibilità di sperimentare la ricchezza del proprio mondo emozionale.


La storia
Mi ricorderò sempre di Rocky, meticcio di 15 anni che, a causa della sua cecità, durante una passeggiata cadde dal molo e si fece un violento bagno fuori programma. Lo shock fu tale che per parecchie notti, da quando chiudeva gli occhi fino all'alba, uggiolava in continuazione impedendo all'intera famiglia di dormire. Da me vennero dopo le diagnosi di tre miei colleghi i quali ipotizzarono problemi reumatici, coliche intestinali e coliche renali, e proposero le relative terapie; ma tutto fu inutile. In quel periodo usavo molto i test kinesiologici; li trovavo fantastici per permettere all'organismo animale di guidarmi nelle mie diagnosi e nelle terapie. Quella tecnica mi permetteva inoltre di creare un reale collegamento tra l'animale e il suo punto di riferimento umano; i test, ovviamente, li facevo direttamente sulla persona. Emerse che il problema di Rocky era solo ed esclusivamente di tipo emozionale; che quello shock era rimasto profondamente impresso dentro di lui e che appena perdeva coscienza del mondo circostante, nel sonno, il trauma veniva a galla com'era venuto a galla lui dopo quell'inaspettato tuffo. A quel tempo non ero ancora del tutto consapevole del legame multidimensionale esistente tra la persona e il suo animale, così decisi di scegliere un fiore di Bach per Rocky, Star of Bethlehem, che mi aiutò a risolvere il caso in brevissimo tempo.


Agli inizi dagli anni Novanta del secolo scorso, in parallelo con lo studio dell'omeopatia iniziai l'autosperimentazione dei fiori di Bach. Lo feci per vari motivi. Principalmente perché ero una persona estremamente timida e avevo molta difficoltà quando dovevo confrontarmi con il mondo esterno. Purtroppo conobbi i fiori di Bach solo alla fine del mio percorso universitario; avevo scelto la facoltà con più esami in assoluto (54) e ogni sessione si trasformava in una battaglia con il mio mondo emozionale. Iniziai a sperimentarli con un certa assiduità solo dopo essermi laureato; erano essenze spirituali che parlavano il linguaggio delle emozioni e mi interessava molto trovare un approccio terapeutico che comprendesse anche questa sfera. Inoltre, era un tipo di terapia che non creava alcuna sofferenza animale poiché era esente dalla sperimentazione sugli stessi. Non è poco. Seguii il percorso fatto dal medico gallese che indicava nei “dodici guaritori” dodici preparazioni in grado di guarire l'uomo dai suoi fardelli esistenziali. Ne presi una alla volta per molti anni e mi fu molto di aiuto per imparare a entrare nel “sentire”.


La storia
Pulce è un gatto siamese che da circa due mesi si lecca in maniera molto insistente strappandosi i peli lungo la schiena. Riccardo è il suo punto di riferimento umano. Riccardo all'inizio dell'anno è stato operato di un tumore alla pelle e questo intervento ha coinciso con il suo pensionamento. In primavera decide di fare il viaggio che aveva sempre sognato insieme a sua moglie. Qualche settimana prima di partire va a trovare sua mamma; suona il campanello ma la donna non risponde. Allora lui insiste e la donna, per andare ad aprire la porta, inciampa, cade e si rompe il femore. Riccardo, nonostante il forte senso di colpa decide di partire lo stesso. Pulce inizia a leccarsi furiosamente prima che Riccardo e sua moglie partano per la vacanza. «Senti, Riccardo – dissi all'uomo che era seduto di fronte a me – proviamo a fare un gioco, vuoi?». L'uomo accennò a un sorriso e fece di sì con la testa. «Proviamo a immedesimarci in Pulce; chiudi gli occhi, fai un paio di respiri profondi e ti immagini di essere lui. Puoi immaginare di avere i baffi lunghi lunghi, la coda e il pelo folto». Riccardo fece alcuni respiri profondi e, seguendo le mie indicazioni, cercò di entrare nel personaggio. «Dimmi come ti senti», gli chiesi. «Bene», rispose lui. «Bene in che senso?». «Riesci a immaginarti di essere lui?». «Sì», rispose Riccardo. «Prova a cercare di definire la sensazione che provi, cercando di dare una qualità emozionale. Riccardo rimase un po' in silenzio e poi disse: «Bene, mi sento bene». «Ma se dovessi definirla come un emozione, come gioia, tristezza, paura, rabbia, sorpresa?». Riccardo rimase per un po' in silenzio. Dopo qualche minuto mi disse: «Bene, sto bene, tranquillo». «Va bene, fai di nuovo un respiro profondo e apri gli occhi». Mi girai verso la moglie che era seduta sulla sedia a fianco. Non dovetti neppure rivolgerle la parola che subito mi disse: «Si sente subito che è rabbia! Pulce sente una fortissima rabbia». Sì, ero perfettamente d'accordo con lei. Com'era mia abitudine, lasciavo sempre che gli animali fossero liberi di esprimersi all'interno dell'ambulatorio. Pulce era uscito dal trasportino, aveva fatto un giro e poi era rientrato. Era un gatto estremamente buono e affettuoso, eppure dall'aria che spostava si sentiva una fortissima rabbia. E la moglie, prima ancora di me, l'aveva sentita.


Riportare il comportamento dell'animale a emozioni di base ci aiuta non solo a riconoscere il suo mondo, ma soprattutto a riconoscere il nostro. L'emozione è alla base del comportamento animale e l'interpretazione del perché l'animale manifesta, ad esempio, rabbia rappresenta solo la fase successiva del processo di comprensione globale. Molte persone, compreso anche un certo numero di educatori e comportamentisti, saltano a piè pari il passaggio fondamentale dell'identificazione dell'emozione di base, che rappresenta la molla che fa scattare qualunque tipo di comportamento e che rappresenta invece l'essenza dell'esperienza animale. Quel gatto è arrabbiato. Pulce sta sperimentando rabbia. Questo è un punto reale dal quale partire perché è un tipo di esperienza interiore che a tutti è dato di vivere e quindi di riconoscere. L'animale, nel suo modo spontaneo di esprimersi, non solo ci conduce a sperimentare il nostro emisfero destro ma, una volta giunti all'interno di questo “mondo”, ci guida a conoscerne le varie sfaccettature. Sperimentare la propria parte emozionale o affettiva con lui e attraverso di lui (“Con lui mi sento felice quando mi fa le feste” o “Mi fa arrabbiare quando abbaia”), seguendo un fluire emozionale che semplicemente reagisce agli stimoli esterni, ci riporta di nuovo a quello che di simile abbiamo in comune con gli animali. Vediamo che il nostro cane ringhia quando vede il cane del vicino; vediamo che il nostro gatto scappa quando suonano alla porta. Emozioni che si innescano in base a reazioni vitali a stimoli esterni; la loro funzione è specificamente questa. Le emozioni si sentono. Gli animali le sentono, noi non sempre. Alcune persone (come Riccardo nella storia precedente) hanno difficoltà a sentire. Gli animali ci aiutano in questo perché spostando il livello della nostra esperienza da un emisfero logico/razionale maschile a uno affettivo/emotivo femminile ci spingono a sentire quello che proviamo nella relazione con essi e con noi stessi rispetto a quello che ci accade nella quotidianità.

Emozioni base
Lo studio dell'espressione delle emozioni avvalora l'ipotesi dell'esistenza di un repertorio biologico di base che si manifesta sin dai primi anni di vita e in popolazioni molto diverse. Tutti gli uomini ridono e piangono. Tutti gli animali superiori manifestano paura e tristezza. Secondo Charles Darwin le emozioni innate (non apprese) sono sei: gioia, disgusto, paura, collera, sorpresa, tristezza.
Le emozioni alterano la frequenza cardiaca, quella respiratoria, la pressione sanguigna, determinano una vasocostrizione cutanea, una secchezza della bocca, contrazione degli sfinteri e dilatazione pupillare. L'emozione non è un'esperienza isolata; essa è connessa con l'azione, in quanto conduce a comportarsi e a reagire in un certo modo piuttosto che in un altro. Questo legame dell'emozione con l'azione è sottolineato dal fatto che: le emozioni positive sono associate ad azioni di avvicinamento, le emozioni negative sono collegate ad azioni di allontanamento. Quest'aspetto della preparazione e della prontezza all'azione, avviato dall'emozione, si può considerare come una condizione fondamentale di sopravvivenza e di adattamento all'ambiente. Le emozioni non compaiono all'improvviso, in maniera gratuita e casuale, ma dipendono dal modo con il quale gli individui valutano e interpretano gli stimoli del loro ambiente. Sottesa all'esperienza emotiva c'è una elaborazione cognitiva, un'attività di conoscenza e di valutazione della situazione in riferimento agli interessi dell'individuo stesso. Due individui possono provare emozioni diverse a fronte del medesimo stimolo. L'emozione è la risultante di due componenti distinte: una componente fisiologica di attivazione e una componente cognitiva di valutazione dello stimolo e di etichettamento della propria esperienza emotiva. La maggior parte delle persone comunica le proprie esperienze emotive condividendole con altri (cerchia degli intimi o massa). Alcune emozioni si prestano a essere rapidamente socializzate (per esempio il ridere); altre invece sono oggetto di ruminazione mentale, un processo intrapsichico di rievocazione continua e prolungata (per esempio tristezza, colpa, vergogna, ma anche desiderio, amore). Tuttavia, non sempre vi è piena corrispondenza tra l'emozione così come viene sentita e come viene espressa o comunicata. Alcune persone possono però avere difficoltà a esprimere quello che sentono.


La storia
«Per lui è straziante, davvero»: alla mia domanda su come stavano andando le cose con Freddy, dall'altra parte del telefono la donna rispose in maniera concisa e piuttosto determinata. «Mi scusi la franchezza della mia domanda – dissi – ma per chi è straziante?». Sentii chiaramente che la donna fece un lungo sospiro; un sospiro che lasciò il posto a un altrettanto lungo silenzio. Cercai allora di rompere l'imbarazzo creato dalla mia domanda aggiungendo: «A me non sembra che sia straziante; da quello che lei mi racconta Freddy è sereno, è tranquillo; sì, va bene, non vuole mangiare, ma penso che il fatto che rinunci ad alimentarsi sia del tutto normale nel momento in cui l'animale entra dentro il processo della sua morte». Dall'altra parte del telefono regnava ancora un prolungato silenzio. Dopo un po' mi sentii di rifare la domanda rimasta in sospeso: «Non vorrei sembrarle insistente ma... per chi è straziante?». Ero perfettamente consapevole che durante il percorso di accompagnamento empatico alla fine della vita del proprio animale l'accettazione era uno dei passaggi più difficili da superare. Sapevo che per molte persone rappresentava una sfida quasi insormontabile e in questo caso avevo intuito che l'uso del termine straziante non era riferito tanto a come Freddy si sentiva, quanto piuttosto alle reali difficoltà della donna. Solo pochi minuti prima mi aveva raccontato quante difficoltà aveva incontrato nei giorni precedenti nel dar da mangiare al suo Freddy. Aveva provato con pesce, carne, salamini, bocconcini prelibati e perfino con una mozzarellina, che a Freddy era sempre tanto piaciuta; e lui qualcosa mangiava, forse per non far dispiacere del tutto alla sua cara “mamma”, ma giorno dopo giorno l'appetito di Freddy progressivamente e inevitabilmente diminuiva, fino a rifiutare anche le cose più sfiziose. «Sa dottore, riguardo al fatto di accettare la morte... io accetto la morte; anzi, negli animali mi viene perfino più facile accettare la loro morte», mi disse la donna con tono pacato. «Ma, mi dica signora – dissi inserendomi nelle sue riflessioni – come fa a mettere d'accordo la frase che ha appena pronunciato con il fatto che poi vive interiormente in maniera straziante vedere Freddy che muore; non pensa che forzare la mano per alimentarlo sia una spia di un contrasto tra queste due parti?». Continuai: «L'accettazione non può essere solo un processo mentale; accettare intellettualmente è sicuramente una fase importante dell'intero processo, ma poi, una volta che si è capito, che intellettualmente ci se ne fa una ragione, il processo non ha altra scelta che scendere nella nostra interiorità. Così, se lei accetta che Freddy sta per morire, non sentirà più il bisogno di cercare costantemente qualcosa che gli possa piacere; non vivrà più dentro di lei quel disagio, quell'inadeguatezza nel non trovare l'alimento adatto per lui; la modificazione interiore che l'accettazione porta trasforma l'evento da qualcosa di straziante in qualcosa di accettabile. Straziante porta con sé la sensazione che non si vede l'ora che quest'esperienza finisca, allo stesso modo del sentimento che si prova nel non trovare qualcosa che piaccia al cane per farlo mangiare. L'accettazione consiste nel proporgli qualcosa da mangiare senza però forzare la mano, lasciandogli la possibilità di scegliere se vuole o non vuole mangiare, mettendosi il cuore in pace, perché se Freddy sente che sta per morire, e per morire ha deciso di non mangiare, io non posso far altro che accettare questa sua scelta. Questo non vuol dire che non si debba più soffrire ma la qualità di tale dolore viene, e qui le parlo per esperienza diretta, trasformato in un sentimento di amore che mitiga il dolore che proviamo. Mi spiace, so che sono solo parole le mie. A lei non rimane che vivere l'esperienza». Dall'altra parte del telefono sentii che finalmente qualche singhiozzo indicava che l'evento era sceso a livello emozionale; il cuore della donna si era aperto; ora Freddy poteva andarsene serenamente e così fece il mattino seguente.


Sia verso se stessi che verso gli altri.


La storia
Le crisi di Sandy non erano davvero state molte nella sua vita: si potevano contare sul palmo di una mano. Fu una decisione comune quella di portare a casa quel gattino piccolo; insieme, marito e moglie, andarono a casa di una loro amica, una sera, a scegliere il piccolo Sandy. La cucciolata era piuttosto numerosa. In realtà fu Sandy a scegliere l'uomo piuttosto che la donna, giacché subito gli andò incontro e da lì, da quel grande umano, non si spostò più. D'altronde, intuitivamente, senza neppure sapere quale sarebbe stata la situazione dei ruoli che avrebbe trovato nella nuova casa, Sandy non aveva molta scelta; l'anziana gatta di casa aveva già scelto, molti anni prima, la donna come sua fedele compagna di viaggio. A Sandy non rimaneva altro che occupare l'unico posto vacante e lo fece senza farsi pregare. Sandy si ammalò per la prima volta quando i due tornarono dal viaggio di nozze. Era stato un momento magico, la vacanza in luoghi che sapevano di incensi e spezie, la spensieratezza, l'euforia della nuova vita in comune. Tutto, ma proprio tutto, in quel momento, per l'uomo era davvero perfetto. Sandy ebbe una crisi proprio quando l'uomo aprì la porta di casa. Un ritorno alla quotidianità decisamente brusco! Poi capitò un'altra volta, poco prima che nascesse la loro bambina. Anche quello era un evento atteso, un'occasione per essere veramente felici, soddisfatti e orgogliosi di sé. E infine arrivo il momento dell'ultima crisi, quella per la quale decise di venire da me in ambulatorio. Le mie domande impertinenti per evidenziare i nodi che i fili delle loro due vite intessevano mi avevano già fatto capire dove saremmo arrivati. «Cos'è successo questa volta, mi dica», dissi rivolgendomi all'uomo che cominciava intanto a intuire nuovi risvolti nella relazione con il suo gatto. L'uomo mi raccontò che era da tanto tempo che faceva il pendolare in un'altra città; aveva scelto quella soluzione perché era l'unico modo per svolgere un tipo di lavoro che gli piacesse. La stessa sera che Sandy ebbe la sua “solita” crisi di vomito, l'uomo era andato a festeggiare con i suoi alunni la fine del corso di informatica che, per la prima volta, aveva tenuto nella sua città natale. Questo era per lui un momento di grande soddisfazione, come lo era stato il matrimonio o la nascita della sua bambina. Misi insieme i due fili. Gli feci vedere in che modo questi si intrecciassero e come ad ogni crisi di Sandy era associata una sua precisa esperienza interiore. L'uomo non poté far altro che annuire. A un certo punto, però, davanti a tale visione che obbligatoriamente gli imponeva di scendere in campo in prima persona, con un guizzo improvviso tentò di svicolare via. «Ma da quando è nata mia figlia, Sandy è sempre attaccato a lei, quasi in maniera morbosa; ho come la sensazione che Sandy abbia cambiato punto di riferimento, nell'ultimo periodo almeno», aggiunse calando leggermente il tono di voce. Con gentilezza gli feci notare che queste crisi erano cominciate molto prima che Sandy decidesse di accompagnare la bambina nella sua crescita affettiva e che il tipo di crisi che aveva avuto in questi giorni, la modalità, la durata e tutto il resto erano, «me l'ha detto lei», proprio uguali a tutte le altre. L'uomo si sentì messo all'angolo e si incupì leggermente. Un lungo silenzio denotò la sua presa di coscienza del problema. Dopo qualche minuto, con la fronte un po' aggrottata, senza peraltro crederci troppo, disse: «Secondo lei, può essere che io non mi senta di meritare le cose belle che la vita mi offre?». Alla fine mi disse che lui era tutto contento di tornare a casa dalla moglie e raccontarle di quella bellissima serata della fine del corso di informatica, ma gli bastò vedere il gatto che vomitava per bloccare la sua spontanea comunicazione.


O spesso si sbaglia bersaglio.


La storia
Anna era una buona mamma; Lia era nata quando lei aveva già superato i 40 anni. Ovviamente all'inizio era stato parecchio difficile inglobare nei ritmi della propria vita la nuova arrivata; ma poi, superati i primi mesi, le cose avevano preso un ritmo accettabile. Anna, in un giorno di primavera, mi portò a far vedere il suo gatto Mosè. «È successa una cosa terribile – mi disse quasi vergognandosi – tenevo Mosè in braccio e mi stava facendo le fusa; a un tratto, non so perché, ha allungato la zampa, penso per fare le coccole, e un'unghia si è infilata nel mio collo: che male. Ho urlato e di getto l'ho buttato lontano».
«Te l'ho portato perché da due giorni non mangia niente e mi sembra molto triste; vedo la pancia che è gonfia e tende a isolarsi. Io mi sento terribilmente in colpa per quello che è successo». Conoscevo Anna da parecchi anni. Conoscevo lei e anche suo marito; lui sapevo che lavorava presso una cooperativa, me lo ricordavo come un uomo molto razionale e decisamente inquadrato. «Non mi ricordo... di chi è Mosè?», domandai ad Anna. «È di Luca», il marito. «Cioè è lui che l'ha voluto e l'ha scelto?». «Sì, sì, è proprio lui che è andato a prenderlo e lo ha scelto tra tre altri gattini». «E dunque Mosè passa tanto tempo con lui?». «No, perché Luca è allergico al pelo del gatto: dopo qualche carezza inizia a starnutire e allora subito lo allontana». Mi era tutto chiaro. Avevo compreso il conflitto di Mosè, la perdita di un qualunque punto di riferimento, prima scelto ma poi respinto da un'allergia e ora respinto anche da Anna; capivo inoltre che Mosè rappresentava una parte di Luca, quella parte morbida, fluida, incontrollabile tipica della dimensione femminile che Luca aveva così tanto bisogno di integrare, ma tanto e tale era il suo conflitto con quella parte che addirittura la allontanava con una bella allergia. Anche Anna era d'accordo con me, quel morbido gattone rappresentava una parte di Luca; molte altre volte, durante le nostre visite, anche per cose banali sulle quali ci dilungavamo spesso in chiacchiere e convenevoli, avevamo affrontato quest'argomento. «Perché lo hai respinto in maniera così violenta?», le chiesi riferendomi a quando Mosè l'aveva pizzicata con la sua unghietta. «Non so dirti esattamente – mi rispose Anna – è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso». «Ma verso di lui, verso Mosè?». «No, lui non c'entra». Anna fece una piccola pausa e poi continuò: «Verso Luca, mio marito, verso la sua totale mancanza di empatia e di sensibilità nei confronti miei e delle esigenze di Lia. Mi dispiace davvero per quello che ho fatto a Mosè», disse sconsolata. Ho pensato che sarebbe stata una cosa bella comunicare tutto ciò anche al diretto interessato. Mi alzai dalla sedia e feci il giro della scrivania. Sistemai la sedia proprio di fronte ad Anna, le presi le mani e le dissi: «Piano piano adesso chiudiamo insieme gli occhi e chiediamo scusa a Mosè; gli diciamo che lui non c'entra, che è stato un colpo di matto e che, da adesso in poi, quando senti questa sensazione prorompente che ti fa fare cose sconsiderate, starai attenta a riconoscerla per tempo e a non coinvolgerlo». Rimanemmo qualche minuto in silenzio a sentire cosa ci accadeva dentro. Mosè, dalla gabbietta, ci osservava curioso.


Sentire le emozioni ed essere in grado di esprimerle fa parte di quello che Rudolf Steiner, fondatore dell'antroposofia agli inizi del 1900, ha definito con il termine di anima senziente. Questa è la parte che abbiamo in comune con gli animali. Cent'anni dopo, nel 2007, l'Unione europea con il trattato di Lisbona, usando lo stesso termine, sancisce che gli animali sono esseri senzienti, in grado cioè di sentire il dolore, la gioia o la tristezza. L'anima senziente è quella parte di noi che ci permette di sentire, al pari degli animali, sia gli stimoli interni, provenienti dal corpo (la fame, la sete, il sonno), che le sensazioni in base agli stimoli esterni (qualunque fatto che accade nella vita: incontri, immagini, eventi ecc). Tutto ciò che appartiene al sentire ha a che fare con l'anima senziente.


La storia
La caratteristica di quella gatta era la timidezza; una timidezza che la separava dal mondo, che la faceva vivere in un mondo nel quale il confronto con l'altro era sempre vissuto come un muro invalicabile. La fragilità... – ho pensato quando l'ho vista – il sentirsi fragile, senza protezione, come se chiunque avesse il permesso di entrare dentro il suo mondo e prendere pezzi della sua vita senza chiederle il permesso. La fragilità, ecco dove stava il punto; il non avere sufficiente forza per reggere la situazione, come quando è arrivata quella novità, quell'intruso non previsto, quel gattino maltrattato dalla vita che chiedeva solo un posto caldo dove vivere. Difficile accettare di condividere gli stessi spazi, meglio scegliere la fuga, meglio evitare il confronto e chiudersi; chiudersi in se stessa, nel proprio dolore, nella propria fragilità. «Dimmi – chiesi alla ragazza che avevo di fronte e che mi aveva appena portato la gatta per una visita – quanto di questa descrizione ti appartiene? Quanto lei – dissi indicando la gatta che teneva in braccio – manifesta un tipo di atteggiamento interiore che ti appartiene?». La ragazza non ebbe paura a sorridere e a confermare con un leggero gesto del capo quello che vedevo. Passammo alcuni minuti in silenzio, poi, spontaneamente aggiunse: «Trovo difficoltà, a volte è davvero imbarazzante, a confrontarmi con qualcuno che è più forte di me. Ecco, guarda adesso, per esempio: sto vivendo una situazione di disagio fortissimo. Da circa un anno ho trovato lavoro in ufficio e lì c'è il mio capoufficio che...». «Che?», la rintuzzai. «Non riesco a difendermi –sbottò la ragazza asciugandosi prontamente le lacrime con un fazzoletto – non riesco a difendermi, ma non è che mi dice chissà cosa, è che mi sento così fragile; è come se mi mancasse quella forza necessaria a tenerlo fuori dal mio mondo interiore. Ho la sensazione che lui, ma non solo lui, spesso il mondo intero, entri dentro di me in maniera troppo intensa, troppo violenta, e io non riesco a gestire emozionalmente questa situazione». «E questo ti condizione la vita?». «Sì, moltissimo, soprattutto adesso che ho deciso di prendere in mano la mia vita, adesso che sento la necessità di fare scelte ben precise, adesso che ho deciso di far entrare nella mia vita un uomo».


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