Amarli senza se e senza ma di Alfie Kohn - Introduzione al libro

Ancor prima di avere figli sapevo che essere genitori sarebbe stato tanto impegnativo quanto gratificante. In realtà, non lo sapevo davvero. Non sapevo quanto sarebbe stato stancante, quanto mi sarei sentito inadeguato, o quanto, arrivato al limite delle mie forze, avrei dovuto trovare la forza di andare oltre.

Non capivo come, a volte, se i tuoi figli piangono tanto forte da indurre i vicini a chiamare i Servizi Sociali è solo perché a cena hai messo loro nel piatto la pasta della forma sbagliata.

Non immaginavo che gli esercizi di respirazione appresi durante i corsi preparto si sarebbero rivelati davvero utili solo molto dopo la nascita di un figlio. Non potevo immaginare il sollievo nell'apprendere come anche i figli degli altri si imbattano nelle stesse difficoltà, comportandosi più o meno allo stesso modo dei miei (e ancor più liberatorio è riconoscere che anche gli altri genitori attraversano momenti bui, quando si scoprono a non apprezzare il proprio bambino, o a domandarsi se ne valga la pena, per non parlare dei tanti altri inconfessabili pensieri).

Il punto è che crescere un figlio non è un gioco da ragazzi. Come dice mia moglie, è un esame sulla tua capacità di affrontare disordine e imprevedibilità – esame per cui non ci si può preparare, e dai risultati non sempre rassicuranti. Titoli e lauree non servono a nulla: quando qualcosa non è poi tanto difficile da fare, dovremmo esprimerci dicendo “Non è mica come crescere un figlio…”.

Una delle conseguenze di tale difficoltà è la tentazione di concentrare tutte le energie nel domare l'opposizione dei figli alle nostre richieste, costringendoli a fare quello che diciamo loro. Se non si fa attenzione, il rischio è che questo diventi il nostro principale obiettivo, schierandoci così dalla parte di coloro che nei figli apprezzano soprattutto la docilità e l'obbedienza a breve termine.

Diversi anni fa mi recai in aereo a una conferenza. Una volta atterrati, non appena il suono del campanello ci segnalò di poterci alzare per ritirare il bagaglio a mano, il mio vicino si sporse verso la fila di fronte alla nostra per congratularsi con i genitori del bimbo seduto davanti a noi, esclamando: “Ma com'è stato buono durante il volo!”.

Si consideri per un attimo la parola chiave di questa frase. Buono è un aggettivo spesso caricato di accezioni morali. Può essere sinonimo di etico, oppure onorevole, o ancora compassionevole. Se riferito ai bambini, invece, spesso il termine sta semplicemente per bravo – o forse per non sei stato un rompiscatole. Quel commento sull'aereo ha fatto suonare un campanello anche dentro di me. Mi sono reso conto che la società sembra volere proprio questo dai bambini: non che siano generosi, creativi o curiosi, ma semplicemente ben educati. Un “bravo” bambino – dall'infanzia all'adolescenza – è quello che non crea troppi problemi a noi adulti.

Con le ultime due generazioni i metodi per ottenere tale risultato saranno pure cambiati: se un tempo i bambini venivano puntualmente sottoposti a crudeli punizioni corporali, oggi capita loro di essere messi in castigo o, al contrario, di ricevere un premio in cambio della loro obbedienza. Ma non si tratta di mezzi nuovi per fini nuovi. L'obiettivo resta il controllo, anche se ottenuto con metodi più moderni. E non perché non vogliamo bene ai nostri figli: ha più a che vedere con il peso schiacciante delle infinite e banali pressioni della vita familiare, per cui mettere i bimbi a nanna o tirarli giù dal letto, infilarli nella vasca o in macchina rende difficile fermarsi un attimo a riflettere su cosa si sta facendo.

Cercare semplicemente di ottenere che i figli facciano quanto viene loro detto rischia di compromettere obiettivi diversi, e più ambiziosi, in serbo per loro. Questo pomeriggio la principale preoccupazione riguardo vostro figlio potrebbe essere quella di non permettergli di gettare l'intero supermercato nel caos, quando gli verrà negato lo sgargiante scatolone di caramelle camuffate da cereali per la colazione. Vale tuttavia la pena di andare più a fondo: durante i miei incontri con i genitori mi piace iniziare chiedendo loro: “Quali obiettivi a lungo termine avete per i vostri figli? Qual è la parola, o la frase, che vi viene in mente per descrivere come vorreste che diventassero? Come volete che siano da grandi?” Fermatevi un attimo a pensare a come rispondereste alla domanda.

Quando invito i gruppi di genitori a riflettere sui principali obiettivi a lungo termine per i loro figli, le risposte che ricevo risultano sorprendentemente simili in ogni regione del Paese. Ecco la lista-tipo di uno di questi gruppi: i genitori in questione affermano di desiderare che i loro figli siano felici, equilibrati, indipendenti, realizzati, efficienti, autosufficienti, responsabili, sani, gentili, premurosi, affettuosi, curiosi e sicuri di sé.

L'aspetto interessante di questa lista di aggettivi – e in primo luogo l'utilità della riflessione in merito alla domanda – è che ci spinge a chiederci se il nostro operato è coerente con quello che desideriamo davvero. Le mie azioni quotidiane possono contribuire a rendere mio figlio l'adulto che vorrei? Quello che gli ho detto al supermercato può, ancorché in minima parte, contribuire a renderlo felice, equilibrato, indipendente, realizzato eccetera eccetera – oppure c'è la possibilità che il modo in cui tendo a gestire certe situazioni renda tali risultati meno probabili? Se sì, cosa dovrei fare in alternativa?

Se pensare a quello che i vostri figli diventeranno fra molti anni vi spaventa troppo, soffermatevi su quanto vi interessa di più oggi. Immaginatevi a una festa di compleanno, o nell'atrio della scuola di vostro figlio. Dietro l'angolo ci sono altri due genitori che non sanno della vostra presenza. Li sentite parlare… del vostro bambino! Di tutte le cose che potrebbero dire, quale vi farebbe più piacere? Fermatevi ancora un attimo a pensare a una parola o a una frase che vi farebbe particolarmente piacere sentire. Scommetto – e mi auguro – che non sia “Accidenti, quel bimbo fa proprio tutto quello che gli viene detto, e senza fiatare”. La domanda cruciale, quindi, è se a volte non ci comportiamo come se questo fosse l'importante.

Quasi venticinque anni fa la psicologa sociale Elizabeth Cagan, provvedendo alla revisione di tutta una serie di pubblicazioni dell'epoca in materia di educazione dei figli, giunse alla conclusione che esse riflettevano in gran parte una “automatica accettazione dei diritti del genitore”, trascurando quasi del tutto di “prendere sul serio bisogni, sentimenti ed evoluzione del bambino”. Presupposto principale, aggiungeva, pare essere quello secondo cui i desideri del genitore “sono automaticamente legittimi”, per cui l'unico punto in discussione è, testualmente, come far sì che i bambini facciano quanto viene loro detto.

Purtroppo non molto è cambiato da allora. Ogni anno negli Stati Uniti vengono pubblicati oltre un centinaio di libri sull'educazione dei figli, senza contare gli innumerevoli articoli sulle riviste rivolte ai genitori, gran parte dei quali zeppi di consigli su come far sì che i figli siano all'altezza delle nostre aspettative, si comportino bene, e vengano addomesticati alla stregua di bestiole. Molte di queste guide non mancano di sciorinare tanti bei discorsi su come tener loro testa, facendo valere la propria autorità – in certi casi negando esplicitamente eventuali dubbi in merito. Tendenza espressa persino in titoli di recente pubblicazione, quali Non temere di punirlo; Genitori al comando; Genitori di polso; Riprendere il controllo; Come correggere tuo figlio – senza sensi di colpa; Perché sono tua madre, ecco perché; Stabilire le regole; Fare il genitore senza sensi di colpa; “La risposta è NO”, e molti altri.

Alcune di queste pubblicazioni si schierano in difesa di princìpi e metodi antiquati (“Aspetta che torni tuo padre a casa, e vedrai come ti concia il sedere”), mentre altre sostengono tecniche alquanto stravaganti (“Che bravo! Hai fatto pipì nel vasino, amore? Allora ti meriti una figurina!”).
Tuttavia nessuna ci spinge ad accertarci che quanto richiesto ai nostri figli sia ragionevole – o nel loro interesse.

È altresì vero, come avrete avuto modo di notare, che molti dei consigli suggeriti in questi manuali si rivelano – diciamo – non molto utili, benché spesso corredati da dialoghi genitore-figlio tanto comici quanto irrealistici, tesi a dimostrarne l'efficacia. Ma se leggere di metodi che si rivelano inefficaci può essere frustrante, ancor più dannoso è avere a che fare con libri in cui non ci si sogna neppure di domandarsi “Che cosa si intende per efficace?”. Se non analizziamo i nostri obiettivi, non ci resta altro che una serie di sistemi tesi unicamente a ottenere che i nostri figli facciano quello che diciamo noi. Ovvero ci concentreremo solo su quanto risulta a noi più comodo, non sui loro bisogni.

Altra caratteristica dei manuali per genitori: il più delle volte i consigli proposti si basano solo sull'opinione dell'autore, che riporta aneddoti scelti appositamente per suffragare il proprio punto di vista. È assai raro trovarvi riferimenti a quanto rivelato dai diversi studi in materia. Al contrario è facile muoversi, titolo per titolo, tra gli scaffali dedicati alle letture per genitori senza neppure accorgersi dell'enorme quantità di ricerche scientifiche riguardo i vari approcci all'educazione dei figli.

Mi rendo conto che alcuni lettori restano piuttosto scettici di fronte ad affermazioni quali “studi dimostrano” che questo e quest'altro è vero, ed è comprensibile. In primo luogo chi butta lì frasi del genere spesso dimentica di precisare a quali studi si riferisca, per non parlare di come siano stati condotti o della rilevanza dei risultati ottenuti. A quel punto riecco la solita questione fastidiosa: se un ricercatore afferma di avere la prova scientifica che agire con i propri figli nel modo x è più efficace che agire nel modo y, sorge immediata la domanda: “Che cosa si intende esattamente per efficace?

Forse che un figlio si sentirà meglio, psicologicamente parlando, facendo x? Avrà maggior consapevolezza delle conseguenze del proprio comportamento sugli altri? Oppure con x si ha più probabilità di ottenere cieca obbedienza?

Alcuni esperti, nonché alcuni genitori, paiono interessati unicamente a quest'ultimo aspetto, definendo vincente qualsiasi strategia in grado di far seguire ai bambini le istruzioni date. In altri termini l'obiettivo si limita al comportamento del bambino, tralasciando i sentimenti legati al soddisfacimento di una determinata richiesta o, addirittura, come considererà la persona che l'ha spinto a tale soddisfacimento. Si tratta di un sistema di valutazione degli interventi genitoriali piuttosto dubbio. L'evidenza suggerisce che persino i metodi disciplinari che all'apparenza “funzionano” spesso si rivelano assai meno efficaci se giudicati secondo criteri più approfonditi.

L'adesione del bambino a un determinato comportamento risulta spesso superficiale, rendendo tale comportamento di breve durata.

Ma non finisce qui. Il punto non è semplicemente quello che perdiamo nello scegliere i metodi educativi in base alla capacità di ottenere l'obbedienza dei nostri figli, bensì che l'obbedienza in sé non è sempre auspicabile. Essere troppo obbedienti non è un bene. Secondo uno studio condotto a Washington su bambini tra 0 e 2 anni, seguiti fino al raggiungimento dei 5 anni, “l'obbedienza abituale [è] spesso associata a disadattamento”. Per contro “un certo livello di resistenza all'autorità genitoriale” può considerarsi un “segnale positivo”. Sul “Journal of Abnormal Child Psychology”, due psicologi descrivono un inquietante fenomeno da loro definito “obbedienza compulsiva”, per cui il timore dei propri genitori spinge i bambini a fare tutto quello che viene detto loro – in modo immediato e automatico.

Inoltre sono molti i terapeuti che si sono espressi in merito alle conseguenze emotive dell'eccessivo desiderio di compiacere gli adulti e di obbedire loro, sottolineando come bambini eccezionalmente ben educati facciano quello che i genitori dicono di fare, diventino quello che i genitori vogliono che diventino; spesso, però, a costo di perdere il senso di sé.

Si potrebbe dire che la disciplina non sempre aiuta il bambino ad auto disciplinarsi, ma neppure quest'ultimo obiettivo è quello giusto. Non è necessariamente meglio che i figli interiorizzino i nostri desideri e i nostri valori a tal punto di fare ciò che vogliamo noi anche in nostra assenza.

Incoraggiare l'interiorizzazione – o l'autodisciplina – rischia di rivelarsi un tentativo di “telecomandarne” il comportamento. Si tratta di una forma più forte di obbedienza. D'altronde c'è una bella differenza tra il bambino che fa una cosa perché sa essere la cosa giusta, e quello che la fa solo compulsivamente.

Accertarsi che i nostri figli interiorizzino i valori che ci appartengono non è lo stesso che aiutarli a crearne di propri. Ed è diametricalmente opposto all'obiettivo di renderli pensatori indipendenti. Sono certo che la maggior parte di noi desidera davvero figli con pensieri propri, sicuri di sé e moralmente coraggiosi … quando sono con gli amici. Ci auguriamo che sappiano tener testa ai bulli, resistere alle pressioni dei coetanei, soprattutto quando si tratta di sesso o di droga. Ma se per noi è importante che i ragazzi non cadano “vittima delle idee degli altri”, allora abbiamo il compito di educarli a “pensare con la propria testa riguardo tutte le idee, incluse quelle degli adulti”. Ovvero, per dirla in altri termini, se a casa nostra viene premiata l'obbedienza, finiremo con il crescere figli che continueranno a fare quello che viene detto loro anche da chi sta fuori di casa. Barbara Coloroso fa notare come le capiti spesso di sentire genitori lamentarsi dei figli adolescenti: “Era un bambino tanto buono, educato, perbene, in ordine. Lo guardi adesso!”. Al che, l'autrice risponde: Da quando era piccolo si è sempre vestito come gli dicevate di vestirsi; si comportava come gli dicevate di comportarsi; diceva le cose che gli dicevate di dire. Ora è qualcun altro a dirgli cosa deve fare… Non è cambiato. Continua a dare ascolto a chi gli dice che cosa deve fare. Il problema è che non siete più voi, sono i coetanei.

Più si riflette sugli obiettivi a lungo termine dei figli, più le cose si complicano. Ogni obiettivo rischia di risultare discutibile se valutato singolarmente: sono poche le qualità la cui importanza è tale da essere tentati di sacrificare tutto il resto alla loro realizzazione (sul tema della felicità, ad esempio, vedere capitolo X, nota n.1). Forse sarebbe più opportuno incoraggiare i figli a trovare il giusto compromesso tra due opposte qualità, in modo da crescerli autonomi, ma anche altruisti, oppure sicuri di sé ma sempre pronti a riconoscere i propri limiti. Così capita che alcuni genitori ribadiscano come la cosa che sta loro più a cuore sia aiutare i figli a stabilire e raggiungere obiettivi propri. Se ciò ha un senso, allora dobbiamo esser pronti a considerare l'eventualità che essi facciano scelte o sposino princìpi diversi dai nostri.

La riflessione sugli obiettivi a lungo termine può portarci in molte direzioni, tuttavia quello che mi preme sottolineare è che, comunque vi si rifletta, è necessario rifletterci molto bene. Tali obiettivi devono esserci di riferimento, se non altro per non farci risucchiare dalle sabbie mobili della vita quotidiana, con la costante tentazione di fare qualsiasi cosa pur di essere accettati. Come padre di due bambini, conosco bene le frustrazioni e le difficoltà del mestiere. Ci sono momenti in cui anche le migliori strategie falliscono miseramente, la pazienza si esaurisce e non desidero altro che i miei figli facciano quello che dico. È dura tener presente il quadro d'insieme quando uno di loro si mette a strillare al ristorante. Se è per questo, non è sempre facile ricordarsi chi vogliamo essere quando si è nel bel mezzo di una giornataccia, o quando ci sentiamo spinti da impulsi meno nobili. È dura, ma ne vale comunque la pena.

C'è chi razionalizza il proprio comportamento tacciando gli obiettivi più importanti – ossia sforzarsi di essere, o di fare del proprio figlio, una persona perbene – di “idealismo”. Ma si tratta proprio di avere degli ideali, senza i quali non varremmo poi un granché. Il che non significa necessariamente “mancanza di praticità”: al contrario esistono motivi sia pratici sia morali per cui concentrarsi su obiettivi a lungo termine piuttosto che su risultati immediati; prendere in considerazione i bisogni dei nostri figli piuttosto che le nostre richieste; guardare un figlio nel suo insieme piuttosto che guardarne solo il comportamento.

In questo libro cercherò di spiegare perché ha senso spostarsi dai metodi abituali attraverso cui imporre qualcosa ai bambini verso metodi che prevedano di collaborare con i bambini. È vero che sono molti gli individui, adulti e non solo, costretti a subire il primo tipo di sistemi, tuttavia non si deve rispondere “Vabbè, così va il mondo” quando si tratta di giudicare, ad esempio, il ricorso a premi e punizioni per tenere tutti in riga. La vera domanda è “che genere di persona vogliamo diventi nostro figlio” – interrogativo che implica se desideriamo che sia il tipo che accetta le cose come stanno o il tipo che le migliora, le cose.

Tutto questo è sovversivo, letteralmente: sovversivo rispetto ai consigli convenzionali su come crescere i figli, e contrario alla miope corsa agli ostacoli che imponiamo loro. Per alcuni di noi potrà significare la quasi totale messa in discussione di quanto fatto fin'ora – e forse persino di quanto ci è stato fatto da piccoli.

Tema di questo libro non è semplicemente la disciplina ma, più in generale, il nostro modo di comportarci con i figli, oltre a quello che pensiamo di loro e che proviamo per loro. Il suo scopo è rimettervi in contatto con i vostri migliori istinti, riaffermando quello che conta davvero – una volta indossato il pigiama, finiti i compiti e sedati i bisticci tra fratelli. Questo libro vi chiede di rivedere i princìpi fondamentali della relazione genitore-figlio.

Ma soprattutto vi offre alcune pratiche alternative ai sistemi che spesso siamo tentati di usare per ottenere il buon comportamento dei nostri figli, o il loro successo, con la certezza che tali alternative abbiano una ragionevole possibilità di renderli persone buone – nel senso più ampio del termine.

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