La casta dei farmaci - Introduzione

Un mondo di pillole...
Furadantin, Zerinol, Cefixoral, Brivirac, Zimox, Fitostimoline, Zirtec, Biochetasi, Acutil plus, Oki, Aspirina, Moment, Aulin, Tachipirina, Maalox, Xanax, Bisolvon. Tutti noi, nascosta in chi sa quale posto, teniamo in casa una gran quantità di farmaci. Pillole, bustine, sciroppi, capsule, pomate. Magari stipati in cassetti o in armadietti, in bagno o in cucina. Acquistati per necessità mesi prima, qualcuno ancora da aprire, altri appena iniziati, molti scaduti o prossimi alla data. Perché una volta superata la patologia per cui li abbiamo comprati, ci dimentichiamo di averli. Rimangono lì, e al prossimo campanello d'allarme correremo veloci verso le nostre scatole magiche. Sperando che siano ancora efficaci e tirando un bel sospiro per il pericolo scampato di dover vestirsi, parcheggiare in seconda fila e tornare dal medico di base. E aspettare, perché tanti altri sono lì come noi, in fila per la sospirata ricetta rosa. Oppure, se la prescrizione non serve, correre in farmacia, che per molti è diventata una nuova mecca.
Abbiamo imparato perfino l'ostico alfabeto farmaceutico della nostra “drogheria” casalinga. Un compendio di molecole che potrebbe difenderci da quasi tutte le infezioni virali e batteriche di stagione. Una piccola riserva a cui attingere, una trentina di scatolette del valore di diverse centinaia di euro che formano la dispensa dei medicinali degli italiani.
Nel 2008 abbiamo consumato in media una dose e mezzo di farmaco al giorno con un più 60% rispetto al 2000. Accumulate per ogni tipo di prevenzione, cura o disagio fisico. Emicrania, mal di denti, ansia, allergie, attacchi d'asma, gastrite, insonnia. Pillole per dimagrire, per smettere di fumare, per non perdere i capelli. Per non avere problemi di disfunzione erettile. E anche quando la malattia non si è ancora manifestata, si prendono farmaci per prevenirla. Mandar giù una pillola è più facile che cambiare il proprio stile di vita. Farmaci contro la pressione e il colesterolo alti sono da anni in cima alla spesa farmaceutica a carico del SSN (Servizio sanitario nazionale).
Quando a pagare è invece il cittadino, si mette mano al portafoglio soprattutto per i farmaci dermatologici e quelli contro i problemi di erezione, non rimborsati dal SSN. Nell'armadietto non mancano mai analgesici e antipiretici, da assumere in caso di febbre, infiammazione in patologie muscolo-scheletriche, reumatologiche, articolari e simili, o anche dopo un intervento chirurgico. Salvo poi dover mandare giù anche un gastroprotettore, per evitare che la compressa appena ingoiata causi danni allo stomaco. Fra le confezioni stipate in qualche angolo di casa, da qualche tempo si è ritagliato il suo spazio l'anti virale, acquistato quando la pandemia di influenza A sembrava una minaccia inevitabile. Farmaci su farmaci, nei casi più ossessivi persino catalogati nell'armadietto a seconda della categoria terapeutica a cui appartengono e della patologia che combattono. Perché a tutto sembra esserci un rimedio. Per ogni malattia, vera o inventata purché remunerativa, c'è una soluzione o qualcosa che combatte i sintomi e fa stare meglio.
Un'affermazione all'apparenza positiva. Ma non saremo diventati troppo medicalizzati? Consumatori compulsivi di farmaci, bisognosi di farmaci. Dipendenti, a volte, dai farmaci. Gli armadietti pieni di blister e flaconi, o le confezioni che non mancano mai nella valigia delle vacanze, rassicurano. Rimedi pronti all'uso. Uno scenario che spesso mette a dura prova la sanissima condizione fisica che mediamente ogni italiano ha per sua fortuna. Siamo il Paese con un'aspettativa di vita media pari a 80,9 anni. E soprattutto godiamo di un sistema sanitario pubblico capillare e universalistico, che mette a disposizione la gratuità delle cure e del ricovero sull'intero territorio nazionale.
Insomma, quel cassetto stracolmo di farmaci vecchi e nuovi, osservandolo bene, assume i contorni surreali di un enorme punto interrogativo che potrebbe sgonfiarsi immediatamente se ci fossero patologie gravi da giustificarne la mole, ma nella maggioranza dei casi non è così. Allora, dopo quel punto di domanda non dovrebbe arrivare velocissima una risposta, ma un fiume di interrogativi. Perché siamo allegri e certosini collezionisti di medicine, capaci di ordinarle in comode valigette pronte a essere imbarcate per due settimane all'anno e accompagnarci in ogni parte del pianeta, anche nelle capitali mondiali del benessere? Perché siamo assillati dal valore quantitativo di ciò che possiamo assumere subito dopo i pasti? In che modo siamo guidati in questo compulsivo rapporto con pasticche e capsule?
Contattiamo amici o parenti durante il weekend per sapere se potranno rinunciare a qualche pezzo pregiato della loro collezione per donarcelo. Siamo pronti a buttarci con la macchina nel silenzio domenicale della città, alla ricerca di una farmacia aperta o di una guardia medica disponibile ad ascoltare i nostri lacrimosi bisogni. Siamo, come molti altri abitanti del Nord del pianeta, dei pessimi consumatori. Abbiamo riempito biblioteche e cinema con parole e immagini che raccontano la moderna scelleratezza. Compriamo senza nessun criterio e con altrettanta solerzia distruggiamo. Andando a far benedire ogni tipo di coscienza. In questo corto circuito tra domanda e offerta sono finiti anche i farmaci, alla cui catalogazione ossessiva ci siamo dedicati raggiungendo negli anni percentuali da capogiro.
Secondo il rapporto OsMed (Osservatorio nazionale sull'impiego dei Medicinali) che fotografa l'andamento delle prescrizioni di medicinali e della relativa spesa in Italia, ogni mille abitanti sono state prescritte 924 dosi di farmaco al giorno nel 2008, erano 580 nel 2000.
Nelle farmacie pubbliche e private sono stati acquistati 1,8 miliardi di confezioni, ben 30 per ogni abitante. Nel complesso la spesa farmaceutica totale, prescrizioni ed erogazioni da strutture pubbliche, ha raggiunto i 24,4 miliardi di euro. Il 75% rimborsato dallo Stato. Una realtà che fa venire i brividi, non di stagione.

Farmaci vs. malattie

Le malattie appartengono alla storia del genere umano, alla nostra vulnerabilità di essere viventi, al rapporto diretto del nostro corpo con virus e batteri, agenti patogeni e sistema immunitario. Siamo assediati ogni secondo della nostra brevissima esistenza, in ogni luogo e indipendentemente dalla condizione sociale, da quando la vita decide di darci un'opportunità uscendo dal ventre materno a quando corriamo agitati dopo una vittoria, o mentre facciamo l'amore. La virulenza e l'invasività di questi nemici invisibili è lì pronta a metterci in difficoltà in ogni istante della nostra esistenza. A difenderci un'incredibile linea Maginot, pronta a respingere gli invasori, a dare battaglia a qualsiasi forma di attacco chimico, traumatico o infettivo al nostro organismo: il nostro sistema immunitario. Con una delle conseguenze che tutti conosciamo bene, la febbre. Siamo un bersaglio, ci piaccia o no.
Per comprendere questa ammissione di vulnerabilità partiamo dal linguaggio, da ciò che mastichiamo tutti, dal significato di due vocaboli che nel corso di queste pagine ritorneranno spesso a sporcarne l'immacolato bianco: malattia e farmaco. A prima vista sembrano l'uno la soluzione dell'altro, un gigantesco e surreale ossimoro se messe insieme. Due mattoncini Lego, l'uno rosso e l'altro bianco, a cui dover dare una sostanziale determinazione se si vuole decidere come procedere.
Farmaco: s.m. 1) sostanza naturale o sintetica dotata di proprietà chimiche e fisiochimiche tali da determinare variazioni funzionali nell'organismo; medicinale, medicamento; 2) cura, rimedio; dal greco phàrmakon.
Malattia: s.f. 1) denominazione generica di qualsiasi alterazione dell'integrità anatomica e funzionale di un organismo;
2) alterazione di una sostanza o di una cosa; 3) qualsiasi turbamento dell'equilibrio psichico o morale; 4) stato di crisi, condizione negativa. Deriv. di malato: dal lat. Male habitum, che ricalca il gr. Kakôs échon, “che sta male”.
Internet e la sua “diderottiana” enciclopedia, Wikipedia, aprono altri scorci interessanti che ci spingono un passo oltre: «Un farmaco è una sostanza esogena, organica o inorganica, naturale o sintetica, capace di indurre modificazioni funzionali in un organismo vivente, positivamente o negativamente, attraverso un'azione fisica, chimica o fisico-chimica. Tale definizione, non funzionale, è necessaria a dare la nozione esatta e scientifica di farmaco. Si distingue pertanto dalla definizione di medicamento, ovverosia sostanza destinata a curare un organismo, definizione funzionale che presenta però evidenti problemi concettuali. Un farmaco può essere utilizzato o somministrato allo scopo di ripristinare, correggere, modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, oppure per stabilire una diagnosi medica. Un farmaco può anche essere utilizzato per sospendere o far cessare funzioni fisiologiche».
La rete è chiaramente più esplicativa anche nel secondo caso: «Si definisce malattia un'alterazione dello stato fisiologico e psicologico dell'organismo, capace di ridurre, modificare negativamente o persino eliminare le funzionalità normali del corpo. Dibattiti etici e morali prendono in considerazione che alcuni stati dell'organismo dovuti alla genetica, come ad esempio la condizione di sterilità, non siano definibili come malattia. Il concetto di malattia deve essere inteso come status e condizione potenzialmente reversibile attraverso l'applicazione di una terapia. Lo stato di malattia può essere dovuto a molte cause diverse: fondamentalmente esse possono essere interne o esterne all'organismo. Tra le cause esterne, tutte le forme di traumatismo, alcuni organismi viventi unicellulari o pluricellulari, virus, sostanze chimiche, fenomeni fisici».

Dal Dott.Tersilli al Dr. House

Internet riesce laddove pagine e pagine di tomi e pubblicazioni, esperti e comunicatori falliscono: semplificare, per essere capiti da tutti. Il suo ruolo, che, come si vedrà immergendosi nelle pagine di questo libro, verrà spesso messo in discussione, possiede l'indubbia capacità di offrire liberamente agli utenti una pluralità di informazioni su cui costruire la propria opinione. Questa conquista e quest'opportunità non finiranno nel tritacarne del dibattito. Il web è d'altronde il luogo privilegiato della controinformazione. Spirito libero o agorà virtuale, dove poter trovare quasi tutto quello che si sta cercando. Dove spesso, e in molti ne avranno testato l'affidabilità, produrre contenuti o mettere in circolazione quelli provenienti da altri media tradizionali. Con la piena indipendenza intellettuale di fare cronaca, quella vera, senza l'opinionismo superficiale e diffuso, o costruire teorie complottistiche infarcite di quel linguaggio apocalittico tanto caro ad alcuni blogger.
Per questo lo sguardo nel web sarà sempre una finestra aperta nella quale di volta in volta osservare l'altra faccia della realtà. Respirare gli umori e capirne le tendenze. Centinaia di siti e portali mettono a disposizione dati, tabelle, grafici, torte e schemi. Numeri che possono fotografare, meglio di tante parole, quello che accade nel rapporto tra malattia-farmaco.
Il web è un pozzo senza fondo di cifre. Ogni istituzione e organismo, pubblico e privato, mette online tabelline e grafici anno dopo anno. Da questa frenetica volontà di informare si può trarre un giudizio encomiabile di trasparenza e apertura. Ma non è tutto fluido e preciso come un'equazione matematica. Gli acrobat scaricabili possono rivelarsi un boomerang impazzito. Il mosaico è complesso, perderne il controllo è facile e i pezzi possono non risultare infiniti. Internet, con la sua babele di informazioni e forum, ha cambiato il rapporto fra paziente e camice bianco. Se in passato ogni tipo di nozione scientifica, diagnostica o terapeutica, doveva passare per forza di cose attraverso il filtro della domanda e del contatto diretto con uno specialista, nel nostro caso medico, ecco che alla fine degli anni Novanta la rivoluzione digitale ha incrinato questa univocità.
Il fiume di informazioni, trasmissione cardine della dialettica bisogno-consumo, del grande ossimoro malattia-farmaco, che un tempo era concentrato solo nelle mani del professionista della salute, è andato man mano diminuendo la sua portata. Si è passati da una posizione di dominio intellettuale – la figura del medico nell'immaginario collettivo ha una sua valenza molto radicata – a una condivisione mal sopportata.
Da Ippocrate di Kos discendente di Asclepio, dio della medicina, passando per il Sordi stacanovista medico della mutua, alle schegge cinicamente geniali della serie Tv Dr. House, la scienza medica ha subìto una radicale trasformazione e con essa la figura che indossa il camice. In Italia i medici iscritti all'Ordine professionale sono 366.440, i nuovi 5927 con un netto calo rispetto ai 6365 del 2005 (dati Federazione nazionale ordini medici chirurghi e odontoiatri, FNOMCeO). Per usare un pesante eufemismo, internet ha minato le basi della pratica medica fino a metterne in discussione le pratiche e gli atteggiamenti, i cardini come l'anamnesi (la storia clinica), la fase della diagnosi e la scelta delle cure. La rete è anche un gran bazar globale, in cui tutto è a portata di mouse. Si vende e si acquista ogni genere di merce, farmaci compresi. La nostra posta elettronica è intasata di email con proposte-esca: pillole dimagranti, contro la disfunzione erettile o pubblicizzate con la pericolosa promessa di effetti dopanti. Si possono comprare senza ricetta e a prezzi stracciati. Ma la contropartita per chi si lascia tentare dall'affare online è finire vittima di una truffa che mette a rischio la salute. Chi compra, non sa davvero cosa c'è dentro la scatola che arriva da chissà quale angolo del pianeta. Il fenomeno internet, quasi antropologico nel suo dirompente valore sociale, ha dunque ripercussioni non da poco nel sistema e nel peso che hanno i medici all'interno del Servizio sanitario nazionale.
Il personale medico che opera all'interno del pubblico è di 106.817 unità, quello infermieristico di 264.117 (dati 2007, ministero della Salute). Questo mastodontico organismo ha superato i trent'anni d'età. Era il 1978 quando il nostro Paese adottò il SSN, sulla carta il nostro tutore nella scelta delle cure migliori quando ci si ammala. Un filtro indispensabile tra noi, gli agnellini del consumo, l'insondabilità della malattia e gli azionisti dell'industria del farmaco. Una valvola indispensabile per non far scoppiare il famoso ossimoro. Con conseguenze, come si vedrà, devastanti.

C'era una volta la scienza

Ma la storia era iniziata con altre premesse. Ripercorriamola per tappe fondamentali.
Nel 1796 Edward Jenner sperimenta il vaccino anti vaiolo.
Nel 1878 Louis Pasteur presenta la sua teoria dei germi, punto fondamentale per la rivoluzione concettuale nella teoria del pensiero scientifico. Sarà poi il chirurgo Joseph Lister a metterne a frutto l'evidente passo in avanti, sterilizzando le sale operatorie e gli strumenti con il fenolo.
La parola antibiotico viene usata per la prima volta da Jean Paul vuillemin nel 1883, in un trattato che descrive la lotta per la sopravvivenza tra gli organismi viventi. Molto prima, quindi, che vengano scoperte le sostanze che oggi identifichiamo con questo nome.
La storia della penicillina è legata al nome di Alexander Fleming, ma per arrivare alla purificazione della sostanza occorre non solo il contributo di altri due ricercatori, Howard Florey ed Ernst Chain, ma anche un'applicazione tecnologica particolare (la fermentazione su larga scala) che trasformerà la casuale scoperta in uno strumento clinico di enorme importanza.
Nel 1921, gli statunitensi Frederick G. Banting e Charles H. Best danno finalmente una risposta a un male conosciuto già nell'antico Egitto, il diabete. I due realizzano una scoperta straordinaria: dimostrano che nel pancreas ci sono alcune zone che producono una sostanza chiamata insulina. La estraggono e ne dimostrano gli effetti fisiologici e le possibilità di impiego terapeutico. Banting riceverà il Premio Nobel per la medicina nel 1923. Le sfide della scienza farmacologica, nella seconda metà degli anni '50, si concentrano nel costruire un metodo di controllo per verificare l'affidabilità di una nuova ipotesi. Nel 1955 Henry K. Beecher pubblica uno studio dal titolo The Powerful Placebo1: sul palcoscenico della medicina fa la sua comparsa l'effetto placebo – una compressa a base di semplice zucchero può ottenere a volte i risultati di un farmaco – e a esso seguono le tante considerazioni scientifiche legate al valore effettivo di un pillola sui sintomi di una malattia.
Intanto la locomotiva della scienza avanza, arrivando dove fino a poco tempo prima sembrava impossibile spingersi. I bisogni di salute chiedono risposte a nuove patologie frutto dello sviluppo economico e sociale: depressione, malattie cardiovascolari, diabete, obesità. È l'epoca degli antidepressivi: il primo della famiglia è l'imipramina, una molecola ritenuta inizialmente soltanto un sedativo. Roland Kuhn nel 1958 la somministra per la prima volta a pazienti depressi.
La rivoluzione senza precedenti della medicina risolve misteri ancestrali. Il 25 aprile del 1953 James Watson e Francis Crick descrivono l'architettura della vita, il DNA. L'identificazione della sua struttura a doppia elica rivoluziona il mondo scientifico e dà lo slancio a nuove esplorazioni della biologia molecolare. È Premio Nobel nel 1962. Un primo mattoncino. Ci vorrà poi il 1972 perché Paul Berg dia forma alla prima molecola di DNA. Lo scienziato decide di interrompere i suoi studi per le valenze etiche e filosofiche degli sviluppi tecnologici. Ripresi i lavori nel 1980, gli viene assegnato il Premio Nobel per la chimica.
La scienza amplia i suoi confini e arriviamo all'inizio degli anni '90 con la grande promessa dei farmaci biologici, in grado di colpire la singola struttura molecolare riducendo gli effetti collaterali e aumentando l'efficacia della terapia. Battezzati per questo dai giornalisti “farmaci intelligenti”, vengono testati e applicati soprattutto nella lotta ai tumori, aprendo nuove speranze per molti pazienti. Arriviamo alle soglie del nuovo secolo e l'impresa da mettere a segno si chiama terapia genica. Il DNA ci porta nella fantascienza: la sua struttura come materia plasmabile su cui intervenire per togliere un gene difettoso, responsabile di una patologia, e rimediare così al danno. Si inizia a parlare di clonazione e nascono i primi animali fotocopia, dalla pecora Dolly al toro italiano Galileo. Sembra che al chiuso dei laboratori, soprattutto in quelli dei nuovi giganti asiatici a forte vocazione tecnologica, si possa fare di tutto, da più parti si invocano limiti e si fissano paletti. La scienza, e la medicina, iniziano a chiedersi dove si fermerà la locomotiva dell'infinito progresso.

Il mercato della salute

E oggi? Il lavoro coraggioso dei pionieri dove è andato a finire? Cosa è rimasto dell'esempio di questi scienziati? Una risposta potrebbe arrivare dopo aver dato un'occhiata a come ha reagito l'industria del farmaco alla crisi che ha messo a dura prova interi settori industriali. Due anni terribili per tutti, ma – sebbene loro affermino il contrario – non per Big Pharma, il club ristretto e prestigioso delle multinazionali del farmaco2.
Nel nostro Paese il valore della produzione industriale del settore nel 2008 è stato di 22 miliardi e 729 milioni di euro, il 12,1% del totale europeo, con un valore positivo dell'1% rispetto al 2007 (dati Farmindustria, 2009). I medicinali hanno un saldo positivo di 522 milioni di euro, e dal 1998 l'export è cresciuto mediamente ogni anno del 9,2%. La spesa dello Stato per medicinali venduti in farmacia, nel 2008, è stata di 18 miliardi e 898 milioni di euro e anche qui troviamo un segno più: 0,9% rispetto al 2007. Siamo, paragonati al resto del continente europeo, il sesto mercato e dei 489,9 miliardi del business del farmaco il nostro spicchio nel mercato globale vale il 3,6%. Dopo gli States con 197,9 miliardi di euro, il Giappone con 46,6 miliardi, la Francia con 28,7, la Germania con 28 e il Regno Unito con 15,2.
Quando nel 2008 la bolla speculativa faceva saltare il tavolo da gioco della finanza americana con il fallimento della banca Lehman Brother's e un crack senza precedenti metteva in ginocchio mezzo mondo, l'isola felice, coltivata con cura e attenzione dai boss di Big Pharma, procedeva a vele spiegate. Meno veloce che in passato, ma comunque in marcia. Certo le scosse di questo terremoto globale hanno richiesto anche ai colossi del farmaco qualche aggiustamento in corso d'opera, hanno reso necessario pensare a nuove strategie di conquista del mercato. E i primi a farne le spese sono stati i lavoratori, ben 5200 in Italia. Quelli rappresentati dal -7% registrato nei livelli occupazionali durante il biennio 2007-2008. Perché il profitto è intoccabile, gli azionisti sovrani e i consumatori troppo importanti. Dal 2002 al 2008 gli investimenti in ricerca e sviluppo sono cresciuti del 36%. Mettere al mondo una molecola3 è un processo lungo, rischioso e costoso. Per rientrare da questi investimenti bisogna massimizzare i profitti ottenibili con i farmaci già sul mercato.
Sulle molecole attualmente in via di sviluppo grava dunque la pressione di realizzare volumi di vendita molto alti, per recuperare le perdite di profitto subite per portare sul mercato nuovi farmaci. Un obiettivo che le aziende continuano a perseguire, appoggiandosi ai tradizionali sistemi di vendita e nel contempo cercandone di nuovi. Per non lasciarsi strozzare dal contenimento dei costi della sanità pubblica da parte di Governi non più generosi come un tempo e dalla concorrenza dei farmaci generici.

L'ossessione del farmaco

Se il mercato del farmaco è vivo e vegeto nonostante la crisi, si dirà che il merito è anche di chi spende. Ovvero, gli Stati che sostengono gran parte della spesa e gli italiani che nel 2009 hanno speso a testa 180,15 euro lordi (Dati Federfarma, 2009).
Ma come riesce il settore farmaceutico a catalizzare così bene i bisogni dei propri clienti e a superare anche i momenti difficili della crisi economica? Certo la popolazione del Bel Paese è aumentata (siamo 60 milioni di unità) e si vive più a lungo (le donne hanno una speranza di vita alla nascita di 84 anni e gli uomini 78,7; dati Osservasalute 2009), gli anziani diventano “pazienti” e si allarga il bacino dei possibili malati cronici. La spesa pro capite per un over 75 è di 12 volte superiore a quella di una persona di età compresa fra 25 e 34 anni. E i cittadini con più di 65 anni assorbono circa il 60% della spesa. I nipoti non se la passano meglio: circa 8 bambini su 10 ricevono in un anno almeno una prescrizione, antibiotici e antiasmatici in particolare (dati Rapporto OsMed 2008).
Ma non è solo sugli arzilli sessantenni che aspirano a raggiungere felicemente i 90 che puntano gli strateghi della pillola. Il lavoro di sviluppo e ricerca dei colossi del farmaco è orientato ad attrarre nuove fasce d'età, intercettando le necessità di salute. Le malattie più diffuse e quelle che spaventano di più l'immaginario collettivo. E, spesso, l'acceleratore del marketing sceglie strade alternative per arrivare al nuovo cliente. Per avvicinarlo e sedurlo serve amplificarne l'attenzione su patologie che ne solletichino le paure. È lì che il fiuto del profitto si getta a capofitto. E una volta trovato il mercato, va spremuto ben bene, fino alla fine. Per mettere in moto la locomotiva, le aziende vendono più la malattia che il farmaco. Servono scaltri psicologi più che ottimi ricercatori. E allora quale strategia migliore di quella di mettersi a tavolino e creare una domanda?
Questa di conseguenza svilupperà una risposta, la richiesta del consumatore-paziente che altro non è se non un'altra domanda. A cui è già pronta la risposta. vendere pillole e venderle a tutti è il motto di Big Pharma.
Dall'altra parte dell'oceano l'hanno capito molto prima rispetto alla vecchia Europa: negli Stati Uniti la spesa farmaceutica dal 1980 al 2003 è aumentata di 17 volte. Loro sì che fanno le cose in grande, e così nel 2009 hanno speso 268 milioni di dollari in lobbing federale, secondo il Center for Responsive Politics americano. Come vedremo, nessun altro settore industriale è globalizzato quanto il farmaceutico: i meccanismi USA non sono diversi dalle strategie adottate al di qua dell'oceano.
Non sarà che oggi la cosa più innovativa nell'industria del farmaco è il marketing?

La trincea AIFA

A reggere la forza d'urto di questo immenso sistema di vendita, che preme per accaparrarsi nuovi consumatori e mantenere fedeli i vecchi, c'è in Italia un complesso sistema che ha deciso negli anni di dotarsi di organi e strutture per cercare di arginare e controllare le influenze dell'industria del farmaco.
Occorre capire quali possono arrivare in farmacia e così ai pazienti, valutare i rischi e i benefici delle nuove molecole, quelli che possono essere forniti gratuitamente perché riguardano patologie diffuse e croniche e sono risultati, dopo una serie di test clinici, sicuri ed efficaci, indispensabili per chi ne ha bisogno. È necessario regolare affinché la maggior parte della popolazione possa accedere alle terapie farmacologiche salvavita, senza che la spesa esploda e il sistema imploda.
Non potendo sfruttare la promozione diretta dei farmaci con prescrizione medica, come invece avviene negli Stati Uniti dal 1997, l'industria deve bussare alla porta dello studio medico e lo fa grazie all'opera degli informatori scientifici (uno dei settori più colpiti dalla crisi), o grazie ai nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia, e deve esercitare influenza e pressione sull'AIFA, l'Agenzia italiana del farmaco, nata solo sei anni fa nel 2004 e “cugina” di altri istituzioni: la FDA americana, Food and Drug Administration, che vigila sul mercato USA delle medicine; l'inglese NICE, National Institute for Health and Clinical Excellence; l'EMA, che si occupa di regolare il settore nel vecchio continente. Agenzie indipendenti e autorevoli, che dovrebbero porsi come interlocutori super partes dei colossi di Big Pharma.
Un lavoro improbo se paragonato alla potenza economica e persuasiva di questi ultimi. Gli strumenti ci sono, il problema è farli funzionare a dovere. Perché in ballo c'è un bene fondamentale e unico: la salute.

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