Giochi con me? di Claudia Porta - L'importanza del Gioco

Come è possibile che, essendo i bambini così intelligenti, la maggior parte degli adulti siano stupidi? Questo è senz'altro dovuto all'educazione - A. Dumas

Da bambini, tutti sappiamo giocare. Crescendo però smettiamo gradualmente di farlo per poi accorgerci, di fronte ai nostri figli, che non ne siamo più capaci.

Spesso il gioco viene sostituito da sport competitivi che, per quanto si chiamino giochi (si dice infatti “giocare” a tennis o a golf) non hanno l'aspetto libero, spontaneo e creativo del gioco nella sua accezione primaria. Smettendo di giocare per tanto tempo dimentichiamo come si fa e abbiamo poi difficoltà a connetterci con i nostri figli. Giocare non è più spontaneo. Dobbiamo decidere di giocare, impegnarci e a volte anche sforzarci.

Questo processo viene sempre più spesso anticipato e il tempo per il gioco si riduce sensibilmente fin dalla più tenera età, e così ecco che invece di scendere a giocare in cortile il bambino va a giocare a calcio, a tennis o a lezione di musica. Tutte attività piene di significato, ma che non devono assolutamente sostituirsi al gioco. Si tenga poi a mente che il concetto di gioco educativo è un'invenzione degli esperti di marketing: il gioco è di per sé educativo. Il gioco è il modo migliore che i bambini hanno per imparare, sperimentando direttamente tutto quello che c'è da sapere nella vita.
Sostituendo il gioco libero e spontaneo con attività strutturate e mirate a uno scopo (vincere, seguire le regole, ecc) si priva il bambino del piacere di giocare e si inculca in lui una dose eccessiva (e non sana) di competitività. Spesso sentiamo dire che i bambini esternano, attraverso il gioco, la propria aggressività. Questo è senz'altro vero, ma non è tutto. Quando giocano, i bambini esprimono una vasta gamma di emozioni che sarebbero incapaci di trasmettere verbalmente. Nel suo libro, Donald Winnicott parla delle emozioni negative espresse attraverso il gioco:

Tutti i bambini provano rabbia e, di conseguenza, aggressività. Questi sentimenti sono classificati come “cattivi”. Il bambino che si rende conto di avere in sé qualcosa di cattivo può sentirsi “sporco”, colpevole. Sapere che tali sentimenti possono essere espressi, a certe condizioni (ad esempio attraverso il gioco) senza provocare risentimento e violenza nei suoi confronti, è rassicurante per il bambino. Sapere che certi sentimenti sono accettabili allevia il senso di colpa.
Se il bambino non si sente accettato nella sua totalità, comprese le sue inevitabili zone d'ombra, si sentirà obbligato a fingere, a reprimere, a nascondere, a negare i suoi stessi sentimenti, con conseguenze disastrose sulla sua personalità e sul suo equilibrio psichico.

Attraverso il gioco i bambini imparano anche a gestire pensieri e situazioni che sono per loro fonte di stress. Il fatto di ribaltare la situazione a loro piacimento e di assumere il controllo (cosa che non sempre è possibile nella realtà) permette loro di elaborare e di controllare l'ansia e la frustrazione legate alla sensazione di impotenza. Questo aspetto è, secondo Winnicott, molto importante perché se ci rendiamo conto che i bambini non giocano per divertimento ma per ragioni molto più importanti, più serie e profonde, comprendiamo che non è possibile privarli di questa attività senza procurare un disagio. Attraverso il gioco, il bambino scopre, sperimenta, impara. Il gioco è l'espressione palese della creatività, e la creatività è il succo della vita stessa. Il nostro compito è quello di prendere il gioco sul serio, riconoscendone l'importanza e condividendo con i nostri figli i giochi classici, cercando di non condizionarli troppo con i nostri interventi.

Possiamo stimolare le loro esperienze fornendo materiali e idee ma pare, in questo campo, che sia meglio offrire poco piuttosto che troppo in questo senso. I bambini, infatti, sono in grado di scovare oggetti interessanti e di inventare giochi con grande facilità.

Nel suo libro Un genitore quasi perfetto Bruno Bettelheim sostiene che il bambino, attraverso il gioco, tenti in qualche modo di “curarsi”, di compensare ciò che gli manca. Occupandosi con tenerezza del suo bambolotto, esprime ciò che vorrebbe dai genitori. Picchiando l'orsetto di pezza, può esteriorizzare la gelosia nei confronti del fratellino che, se repressa, potrebbe diventare un peso troppo grande. Per questo è importante tentare di comprendere eventuali comportamenti aggressivi prima di etichettarli come inaccettabili. Se permettono di canalizzare un sentimento troppo forte, potrebbero invece rivelarsi benefici.
Attraverso il gioco, i bambini interagiscono con gli altri. È così facile farsi degli amici (o dei nemici) mentre si gioca. Ben più difficile è riuscirci in un contesto diverso. Da ultimo, ma non meno importante, il gioco crea un ponte tra il corpo e la mente. Proprio come le numerose tecniche millenarie (primo fra tutti lo yoga) attraverso le quali noi adulti cerchiamo di connettere queste due entità. Il gioco è il legame tra il mondo interiore e il mondo esterno. Fa parte del bambino ma si estende anche al di fuori. Gli permette di comunicare e di connettersi con gli altri. Attraverso il gioco, il bambino raccoglie oggetti e fenomeni provenienti dal mondo esterno e li rielabora nel proprio personale mondo interiore.
Winnicott praticava già, ai suoi tempi, quella che oggi chiamiamo la gioco-terapia (play-therapy). Attraverso il gioco il terapista cerca di comunicare con il bambino. Sapendo che questi non possiede la padronanza del linguaggio necessaria ad esprimere concetti così sottili e complessi, il terapista trova nel gioco le risposte a ciò che cerca.

È opportuno tener presente come il gioco sia già in sé una terapia. Fare in modo che i bambini possano giocare è una forma di psicoterapia, che avrà effetti immediati e universalmente applicabili. A cominciare da un atteggiamento sociale positivo nei confronti del gioco.

Chi accudisce i bambini dovrebbe essere presente durante il gioco. Questo non significa che debba entrarvi. Quando c'è bisogno di un organizzatore esterno che diriga il gioco, significa che il bambino o i bambini non sono in grado di giocare in modo creativo.

Ma Winnicott non si limita ad affermare che il gioco sia una vera e propria terapia. Il paragone è valido, secondo lui, anche nell'altro senso. Anche la psicoterapia nella sua accezione più classica sarebbe, in fondo, una sorta di gioco.

Se il terapista non è in grado di giocare, allora non è adatto a questo lavoro. Se il paziente non è in grado di giocare, occorre un intervento che gli permetta di riuscirvi. Solo a quel punto la psicoterapia può iniziare. Il motivo per cui il gioco è essenziale è che attraverso il gioco il paziente riesce ad essere creativo.[…] È nel gioco e solo nel gioco che l'individuo (adulto o bambino) è in grado di essere creativo e di utilizzare la sua intera personalità. Ed è solo attraverso la creatività che l'individuo scopre il proprio sé.

Secondo John Holt, considerato il “padre” della scuola familiare (Homeschooling) negli Stati Uniti, gioco, poesia, musica, recitazione e arte in generale sono tanti modi diversi che il bambino utilizza per esplorare il mondo. I bambini che sanno giocare in modo creativo sono quelli che riusciranno meglio a imparare e ad affrontare le sorprese e le frustrazioni della vita di tutti i giorni.

Dobbiamo resistere alla tentazione di pensare che questa parte della vita dei nostri bambini [il gioco] sia meno importante delle attività “serie” – lettura, scrittura, compiti o qualsiasi altra cosa noi vogliamo che facciano […]. Saper giocare bene è importante quanto saper leggere bene. Del resto, se li osservassimo con molta attenzione scopriremmo che i bambini che non sanno giocare, sognare, fantasticare, non sono in genere nemmeno i più bravi a leggere.

Holt sostiene inoltre che, contrariamente a ciò che molti credono, la fantasia non porta il bambino ad allontanarsi dal mondo reale. Al contrario, nei giochi di fantasia (almeno finché il bambino è libero da condizionamenti imposti dalla tv e dai videogiochi) il bambino imita le azioni quotidiane dei suoi genitori, amici e familiari e le esperienze vissute, passando in genere dal ruolo di spettatore a quello di protagonista.
Nel suo How Children Learn Holt paragona la realtà a un puzzle, di cui i bambini posseggono solo un numero limitato di pezzi. Con così pochi pezzi, un adulto non tenterebbe nemmeno di comporre il puzzle. Il bambino invece, dotato di grande curiosità, determinazione, energia e soprattutto pazienza, tenta l'impresa impossibile. Per sostituire i pezzi mancanti, utilizza l'immaginazione. Questo fa sì che ne risulti un'immagine del mondo probabilmente poco fedele, ma si tratta di una ricerca della realtà e non di una fuga dalla stessa.
Il discorso ovviamente è diverso se il bambino, in seguito a esperienze traumatiche, si rifugia in un mondo immaginario nel quale si sente al sicuro.

Giocare è dedicarsi a un'attività per divertirsi, per ricavarne piacere. Il gioco non ha altro fine che se stesso: il bambino gioca per giocare. Se nel frattempo apprende qualcosa, si tratta di un “effetto collaterale” e non del suo scopo primario. Ciò non toglie che il gioco permetta al bambino di scoprire molte cose. Attraverso questa attività che si perpetua di generazione in generazione, il bambino acquisisce le regole, i costumi e i valori propri dell'ambiente in cui vive. Il bambino scopre se stesso e il mondo nel quale vive.

Di più, attraverso il gioco il bambino scopre il piacere di imparare. Questa visione gli sarà utile per il resto della sua vita e gli permetterà di diventare una persona aperta e curiosa, desiderosa di scoprire, sperimentare, acquisire nuove conoscenze. Senz'altro un dono inestimabile durante gli anni della scuola. Attraverso il gioco il bambino apprende inoltre molti concetti logici che sarebbero per lui troppo complessi se affrontati in altro modo. Quando gioca, il bambino assume il controllo della situazione. Si sente capace e competente. Questo è per lui fonte di gratificazione e contribuisce a rinforzare la sua autostima. Ma il gioco permette anche di sperimentare il fallimento in un contesto in cui le conseguenze saranno minime. Quando la torre crolla, il bambino può essere deluso e imparerà ad affrontare la frustrazione in un contesto protetto. Poi deciderà liberamente se ricominciare o passare a un'altra attività.
Il gioco è anche una forma di comunicazione. Attribuendo ai vari personaggi questa o quella emozione, il bambino esprime quelle che sono le sue. Un modo per esprimere e condividere ciò che prova. Del resto è frequente che il bambino, giocando, parli da solo. È per lui l'occasione di praticare le abilità verbali, spiegando ai suoi giocattoli ciò che sta facendo, ciò che sta succedendo. Questo esercizio linguistico favorisce l'acquisizione di nuovi termini. L'apprendimento della lingua diventa così più rapido e assume una connotazione ludica.
Il gioco è anche il primo passo verso la socializzazione. Il bambino impara a condividere, a comunicare, a rispettare le regole, ad aspettare il proprio turno. Giocare è una cosa seria. Quando interrompete il vostro bambino che sta giocando perché è ora di uscire o di mettersi a tavola, non state dando sufficiente importanza alla sua attività. È come se lui vi interrompesse mentre lavorate. È possibile mostrare rispetto per le sue attività senza per questo lasciarsi “calpestare”. Basterà prepararlo con un po' di anticipo, perché possa organizzarsi in modo adeguato.

Gioco e ripetizione
La ripetizione rigorosa di uno stesso gioco mostra che il bambino lotta con dei problemi che hanno per lui una grande importanza e che, finché il gioco non gli fornirà una soluzione, continuerà a ripeterlo per cercarne una” - B. Bettelheim

A volte il gioco ripetitivo può preoccupare i genitori, che temono che il bambino sia in qualche modo “bloccato”. In realtà, attraverso la ripetizione, il bambino cerca qualcosa (la soluzione a un suo problema, l'affinamento di una abilità, un senso di sicurezza…). Quando avrà raggiunto i suoi obiettivi, quando avrà costruito ciò a cui tendeva, passerà spontaneamente ad altro. È importante non ostacolarlo in questo processo.

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