La valutazione scolastica

L'influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli

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La valutazione scolastica  Giulia Manzi   Il Leone Verde
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Il libro tocca lo scottante tema della valutazione e quanto la mala comprensione di essa influenzi la crescita dello studente, non solo a scuola, ma durante tutta la vita.

Partendo da esperienze personali, il testo percorre l'analisi dei sistemi e criteri di giudizio scolastici, il rapporto tra famiglie e insegnanti e il bisogno di una scuola che ponga l'alunno e le sue esigenze d'apprendimento e sviluppo personale al primo posto.

Un libro rivolto agli adulti – genitori o insegnanti che siano – per approcciarsi al mondo degli studenti da un altro punto di vista.


INDICE DEL LIBRO
Introduzione
I La Valutazione: chi è costei?
Un giudizio di troppo
II “Sono Fatto al 70% d'Ansia”
“Per favore, permettetemi di presentarmi: sono l'Ansia”
Aiutiamoli: piccoli consigli per combattere l'ansia da prestazione scolastica
III “Il sapere è come il maiale: non si butta via niente”
La finalità dell'apprendimento
Origine e sviluppo della motivazione
Il voto come premio
Il voto come indicatore
Nozioni o competenze? La teoria della barbabietola da zucchero
IV Super Sayan a scuola: la logica del PoWer Up
INVALSI? Cos'è? Si mangia?
C'era una volta l'INVALSI, che disse agli studenti...
INVALSI sì, INVALSI no
Come è cambiato
V Hic sunt Leones: la scuola e la famiglia
L'affetto come modificatore di prestazioni
Quando il bene diventa ricatto
Mio figlio è perfetto: aspettative eccessive
Insegnante per vocazione
Scuola e famiglia: questo matrimonio s'ha da fare
VI Il supplizio di casa: i compiti
Se non mi serve, non lo imparo
I compiti autentici: imparare senza paura
VII Una nuova scuola
AppendIce - La parola ai ragazzi
Questionario sul benessere scolastico
Circle Time: cos'è l'ansia?
(Classe seconda della scuola secondaria di primo grado)


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La valutazione scolastica
L'influenza del giudizio sulla motivazione dei nostri figli

Giulia Manzi



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Chi non ha mai preso un'insufficienza a scuola? Un 2, o un 4, o quel malefico 5 e 1⁄2, causa del maggior numero di ricoveri per esaurimento nervoso, appena un gradino sotto al: “Ti devo parlare” e uno sopra al: “Non sei tu, sono io”...

Se in questo momento fossimo in una sala, potrei quasi scommettere la mia collezione di edizioni della Divina Commedia che ci sarebbero molte, moltissime – se non tutte – mani alzate; alcuni ricorderebbero quei lontani tempi della giovinezza con un sorriso, altri aggrotterebbero la fronte, incalzati dal giovane sé che ricorda la frustrazione del tragico momento; altri ancora, forse più saggi, forse solo più sinceri con se stessi, riproverebbero quella sensazione alla bocca dello stomaco, quel sentore d'ansia dovuto al sentirsi gli occhi di tutti puntati addosso, mentre su di te si chiude la gogna del non essere stato all'altezza, sigillata con il lucchetto dell'insufficiente.

Ricordo con esattezza la mia prima insufficienza: un tre in geografia in prima liceo, stampato in nero sul registro.

Avevo quattordici anni, una carriera scolastica che aveva sempre oscillato tra l'eccellente e il distinto, se non si contavano i tragici risultati di Educazione Fisica – tanto per completare il cliché della studentessa brava negli studi e pessima nello sport – e quel giorno imparai alcune cose:
a) non ero onnisciente;
b) la mia autostima subiva danni proprio come quella di chiunque altro;
c) le mie competenze, la mia intelligenza e perfino il mio essere come persona era quantificato da un numero: che questo fosse il numero d'appello, o quello di votazione.

In casa mia non si era mai dato peso alle votazioni; i miei genitori – ambedue insegnanti – sono sempre stati contro ogni incasellamento dello studente in una cornice “numerica”; sono cresciuta in un clima dove l'obiettivo finale è sempre stato l'impadronirsi di una competenza, mai una buona valutazione scolastica – aspetti che non spesso coincidono.

Con quell'interrogazione cambiò tutto, non tanto in casa, quanto in me: conobbi il sapore dell'umiliazione, del trovarsi davanti a tanti occhi che ti guardano e assistono al tuo fallimento; occhi compassionevoli, derisori alcuni, addirittura grati al Fato di non essere al tuo posto in quel particolare ecosistema a sé che è la classe. Tuttavia, niente mi segnò quanto il ricevere un numero – un 3, appunto – che determinava l'inizio della mia carriera scolastica da liceale. Non importava a nessuno che io conoscessi a menadito cosa fosse una penisola o un calanco; non era rilevante il mio sapermi orientare facilmente, riconoscere il nord e il sud e tutte le altre competenze geografiche che avevo acquisito nel corso degli anni: quello che contava era che non sapevo i nomi dei fiumi su una cartina muta, che non avevo acquisito delle nozioni – di cui, a onor del vero, ho riscontrato l'utilità giocando a Trivial Pursuit con gli amici, perché... Ehi! Identificare su una cartina il maledetto Fiume Giallo cinese senza tentennare fa sempre “figo” – e che la mia persona, in una scala da uno a dieci, valeva 3.

A quell'insuccesso seguirono dei 4 in altre materie, dei quali uno ancora oggi non riesco a giustificarmi. Quelle valutazioni negative portarono con sé un'insicurezza che mi sono trascinata fino all'Università, tanto che finii due anni fuori corso a causa di attacchi di panico dovuti all'ansia da prestazione e alla paura del fallimento – e in conseguenza dell'umiliazione di fronte a un gruppo più o meno ampio di persone, ma soprattutto di fronte a me stessa. Sono riuscita a superare tale situazione solo grazie a uno psicoterapeuta, ma ancora oggi, quando mi ritrovo a dover parlare davanti a una folla – anche di argomenti di cui sono competente –, devo fare un enorme sforzo per contenere il panico e la tensione che la prospettiva mi genera.

Ovviamente questa mia situazione personale non è dovuta soltanto a insuccessi scolastici, ma essi hanno in qualche modo influito sulla fiducia in me stessa. Dopo quel primo 3, dopo quella (s)valutazione della mia persona, mi si aprì davanti agli occhi l'amara verità: per il sistema scolastico non contano le competenze, ma le nozioni.

Non è mia intenzione fare di tutta l'erba un fascio, né di gettare fango sull'intero sistema scolastico, in quanto sono consapevole – e ne ho avuta la riprova grazie a numerosi incontri sul territorio italiano con plessi, istituti e singoli docenti meravigliosi – che l'istruzione, oltre a essere un terreno scottante, è un percorso difficile e che il singolo insegnante può davvero fare la differenza; ma all'alba dei miei quattordici anni l'unica cosa che recepii fu la frase sopracitata: importava cosa sapevo, non come o perché lo sapevo.

Cominciò così la mia ossessione per il numero sul registro, per il voto sulla pagella, per quel 6 che doveva diventare un 7, un 8, e così via. Il voto era – ed è stato per molto tempo – una droga. Non ero una persona socievole e non avevo grandi capacità con cui distinguermi in un gruppo di adolescenti, né per aspetto fisico, né per simpatia; le mie qualità erano sempre state puramente intellettive – e penso sappiamo tutti che aver letto tanto o ascoltare musica vecchia di decenni non aumenta l'indice di gradimento tra coetanei – e non avevo ancora scoperto la passione per la scrittura... lo studio, il sapere sempre più degli altri, era stato ed era l'unico metro su cui valutavo me stessa e la mia identità. Sicché, nonostante la fortuna di avere dei compagni di classe meravigliosi a cui – non so come, né perché – piacevo così com'ero, cominciai a misurare me stessa in base alle valutazioni che ricevevo.

Con il tempo, e tanto lavoro personale, sono riuscita a liberarmi da quell'ossessione, ma non dalle mie ansie; ancora oggi se penso a un test in cui devo essere valutata, come se fossi un oggetto da vendere a cui bisogna attribuire un valore oggettivo, ho attacchi di panico a prescindere dalla preparazione. Gli esami all'università, soprattutto alla magistrale, sono stati un incubo; la spersonalizzazione del sistema scolastico l'ho vissuta come se fossi all'interno di un lager, col numero di matricola o del registro tatuato a fuoco sul braccio. Ogni volta che a un'interrogazione o a un esame sentivo chiamare: “Matricola n° 1504951” provavo la sensazione di entrare in una camera a gas.

Il mio unico aiuto è stato il pensiero di ciò che affermava mio padre e che ha sempre ribadito mia madre sulla valutazione:
Classificare dando una votazione o un giudizio di merito comparativo, a livello di scuola dell'obbligo, nel pieno sviluppo evolutivo, nel primo impatto e nel successivo adeguamento e nelle ricerche di strutture per una vita associata “migliore”, significa voler dimenticare che la scuola è tale solo se insegna a pensare, solo se aiuta a immettersi con libertà nella società.
Classificare significa impedire un armonioso sviluppo intellettivo, rispettoso dei tempi di crescita individuali; significa impedire un apprendimento cosciente, che nasce, cioè, da un continuo osservare, ragionare, discutere sulle cose; ricerca, questa, che non è mai priva di errori, di incompletezze. Ora, se si classifica, l'errore, l'incompletezza suscita “terrore”, per cui si tende ad evitare la causa del terrore copiando, imparando a memoria definizioni fatte da altri, ecc.
Classificare, pertanto, significa obbligare ad accettare definizioni stabilite, pertanto impedire il ragionamento, rendere tutti affini al modello prefisso, significa educare alla menzogna e alla falsità.
Classificare significa ancora educare alla divisione classista (bravi, più bravi, meno bravi, ecc.), significa selezionare, distruggere la personalità.
Classificare significa, purtroppo, distruggere il senso della comunità, dove ogni individuo deve imparare a vivere dando il meglio di se stesso non per lucro (ed anche il voto è lucro) ma nell'interesse della comunità stessa e per il piacere personale che deriva dalla scoperta e dalla conoscenza.

Queste parole mio padre le ha scritte il 7 giugno 1975. In seguito è stato sospeso dall'insegnamento per due mesi, proprio per il suo rifiuto di classificare l'alunno tramite un giudizio o un voto.

Queste parole sono le stesse che anche nei momenti di peggior sconforto, quando la mia serenità era minata dal panico, dall'ansia e dalla paura di non valere abbastanza se non prendevo un voto alto, mi hanno aiutata a uscire dal tunnel scolastico e affrontare i miei incubi.

Oggi, con qualche anno in più sulle spalle, sono una persona diversa: ho incentrato la mia tesi di laurea magistrale sull'insegnamento della geografia nella Scuola Primaria, ho tenuto un laboratorio per insegnanti e sono andata spesso a parlare nelle scuole dell'insegnamento pedagogico di papà. Con tanti incontri, tanti studi e un bel po' di “senno di poi”, che mi permette di guardarmi indietro e ridere della ragazzina ansiosa che ero (e che sono tuttora, perché le proprie paure si controllano, ma non ci si affranca mai del tutto da esse), posso addentrarmi in questo libro che non ha la pretesa di essere verità assoluta, né un manuale d'istruzioni per insegnanti o genitori. Solo una raccolta semplice e diretta su cos'è la valutazione, i suoi effetti sui ragazzi quando non è utilizzata nel modo corretto e cosa potrebbero fare la scuola e le famiglia per aiutarli a crescere liberi e felici, anche con un brutto voto.

Buona lettura.


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