Prefazione al libro 'L'ultimo giorno d'inverno' di Anna Paola Bianchi

Quello che leggerete in questo libro è tutto vero, ma soprattutto è frutto del sincero lavoro di rielaborazione della propria coraggiosa e, oserei dire unicamente preziosa, esperienza di vita. Quando a me, medico, è stato chiesto di farne la prefazione, ho accettato con piacere, sapendo di non essere né un letterato, né un divulgatore scientifico. Soltanto un privilegiato “testimone” di parte della storia di una giovane donna che si autodefinisce, con leggera ironia, “dannatamente meravigliosa”. Una donna che ha generosamente deciso di far conoscere agli altri la sua forte esperienza umana, fatta di faticose sconfitte, ma anche di luminose vittorie.

Ho conosciuto la giovane autrice di questo intenso e bel libro quando lei era ancora bambina undicenne, in un momento molto difficile della sua vita che io e miei collaboratori non dimenticheremo mai. Dirigo il reparto di Pneumologia all'Ospedale Universitario di Cattinara a Trieste e, il giorno in cui dovevamo incontrarla per la prima volta, insieme con medici e infermieri, scrutavamo il cielo preoccupati. Era un giorno in cui il telegiornale avrebbe puntualmente riferito che “a Trieste soffia la bora”, come succede tutte le volte che il caratteristico vento settentrionale raggiunge velocità superiori a cento kilometri orari. Ma non si trattava di una bora qualsiasi, bensì della “bora nera”, la versione peggiore, caratterizzata oltre che da forte vento freddo, da nuvole scure e pioggia.
Proprio quel giorno aspettavamo lei, una bambina in gravi condizioni che doveva essere trasferita in elicottero al nostro reparto dalla Rianimazione dell'Ospedale di Rimini. L'arrivo era previsto in mattinata, ma l'ostilità meteorologica aveva costretto l'elicottero ad atterrare a circa cinquanta kilometri prima, all'aeroporto di Ronchi di Legionari, invece che sulla piazzola di atterraggio dell'Ospedale. Il tempo dell'attesa per il suo arrivo sembrava non passare mai. Come scrive la giovane autrice, nel nostro reparto ospedaliero non erano mai stati ricoverati pazienti così giovani e quindi quel giorno eravamo giustamente preoccupati non solo per la “bora nera”.

La settimana prima, era venuto a trovarmi in Ospedale l'amico e collega Bruno Bembi, esperto di malattie da accumulo lisosomiale, che mi aveva pregato di accogliere una sua piccola paziente affetta da malattia di Pompe. Era stata ricoverata in Rianimazione in seguito a una grave polmonite e non si riusciva a staccarla dal respiratore artificiale cui era collegata, tramite un foro in trachea, detto tracheostomia, 24 ore su 24. In termini medici quando il paziente è totalmente dipendente dal ventilatore meccanico artificiale e non si riesce a staccarlo, neanche per poco tempo, si parla di difficoltà di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Avevamo già svezzato da tracheostomia e da ventilazione artificiale altri pazienti neuromuscolari e in particolare altre persone con la stessa malattia di Pompe, mai così giovani. Sinceramente avrei preferito affidare a un Centro pediatrico la bambina e avevo pertanto chiesto al collega Bembi: “Scusa, ma perché non la fai trasferire in un servizio per bambini?”. La sua risposta mi aveva messo con le spalle al muro: “Non puoi dirmi di no. Ho chiesto al nostro Ospedale, ma non se la sentono di prenderla perché non hanno esperienza di pazienti neuromuscolari con difficoltà di svezzamento. Tu invece ne hai tirati fuori tanti e cerchi nel possibile di chiudere la tracheostomia. Per favore cerchiamo di mettercela tutta. I genitori disperati si fidano solo di me e la bambina è molto provata”.

Guardandomi negli occhi mi convinse ad accettare e a mia volta convinsi il personale ad accogliere in una stanza singola quella giovanissima paziente con la sua mamma. Nel libro è descritto molto bene lo stato d'animo di tutti e anche le difficoltà affrontate, a una a una, poi superate. Vorrei solo soffermarmi sull'episodio riportato nel libro, della telefonata da me ricevuta mentre ero all'aeroporto di Istanbul. Mi trovavo lì perché ero stato invitato dalla Società Scientifica Pneumologica Turca al loro Congresso Nazionale per una relazione proprio sui problemi respiratori delle malattie neuromuscolari. Ero da poco atterrato, arrivavo da Roma ed ero in attesa del volo interno che mi avrebbe portato ad Antalya, quando squillò il cellulare dall'Italia. Mi chiamavano dal reparto, dicendomi che la piccola paziente, che sembrava migliorare nei giorni precedenti, era stata male quella notte e il medico di guardia l'avrebbe fatta re-intubare con nuovo trasferimento in Rianimazione. Chiesi informazioni mediche più dettagliate per capire cosa stava succedendo, nel timore che qualcosa di non necessario compromettesse tutto il faticoso lavoro fatto fino ad allora. Un nuovo ricovero in Rianimazione con ulteriore intubazione, non solo avrebbe portato indietro l'orologio del recupero respiratorio e motorio, ma avrebbe rischiato di influire pesantemente sull'equilibrio psicologico e fisico della giovane paziente contribuendo a renderla, in seguito, più gravemente disabile, ossia meno autonoma al momento della dimissione.

Mi chiesi più volte in quel poco tempo: la decisione di “metterla in sicurezza” con l'intubazione e il passaggio in Rianimazione era motivata da giusti timori del medico di guardia o c'erano scelte alternative migliori? Dopo aver parlato con gli infermieri e con la mamma capii che la bambina era soprattutto spaventata. Durante la ventilazione non invasiva le era passata aria nello stomaco e sentiva dolore, ma non era successo nulla di grave e irreparabile. La polmonite era ormai superata e non c'erano segni di una regressione in tal senso. Il problema che a volte non tutti i medici considerano è che in un malato neuromuscolare, dopo un grave episodio di insufficienza respiratoria acuta, le forze possono essere recuperate solo molto lentamente, anche se tutte le cure sono corrette. L'immobilizzazione obbligata a letto, come succede in una persona intubata e ventilata, contrasta la faticosa ripresa di autonomia motoria nel paziente con malattia neuromuscolare e ogni perdita di movimento rispetto a prima può essere vissuta come un'irreparabile sconfitta.

D'altro canto, il medico non particolarmente esperto può considerare con pessimismo clinico le possibilità di ripresa di un paziente che si muove con difficoltà o ancora peggio fa uso di carrozzina, soprattutto se non lo conosceva precedentemente. Nel caso di Anna Paola poi, era facile prevedere che una seconda intubazione e ricovero in Rianimazione con eventuale sedazione farmacologica avrebbe solo peggiorato la sua situazione muscolare e psicologica. Era il caso di rischiare questo soltanto perché il medico di guardia si sarebbe sentito più sicuro, dato che il problema era un po' di aria nel pancino? Certamente no. Nonostante mancasse solo un quarto d'ora alla partenza del mio volo aereo successivo, ce la misi tutta per convincere la madre che l'unica strada percorribile era quella di resistere con la ventilazione non invasiva. Ma era necessaria tutta la collaborazione di Anna Paola, e soltanto la mamma poteva ottenerla. Io, dall'aeroporto di Istanbul, non potevo fare di più.

Quanto è successo dopo lo spiega Anna Paola nel libro. Il “miracolo” di cui parla lo ha compiuto soprattutto lei che, in poche settimane, è cresciuta dentro e fuori, portando nel nostro reparto tra personale e malati una contagiosa allegria e un vento d'ottimismo. Negli anni successivi, insieme al dr. Bembi, ho continuato a seguire Anna Paola tra difficoltà e progressi che l'hanno portata a diventare una giovane donna capace di accettare i propri limiti fino al punto di farli diventare forza per conoscere meglio se stessa e gli altri, con l'appoggio sempre discreto e affettuoso della sua famiglia. Leggere in questo libro le sue concrete fatiche quotidiane e le risorse trovate dentro di sé per superarle, mi ha veramente fatto bene. Così, spero che anche altri lettori, lasciandosi interrogare dalla profondità di questa giovane scrittrice, possano essere aiutati a capire la differenza tra gli pseudo-limiti “autoindotti” da un diffuso vittimismo e quelli fisicamente reali di tante persone che ci vivono accanto.

Dott. Marco Confalonieri
Direttore del reparto di Pneumologia
dell'Ospedale Universitario Cattinara (Trieste)

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