Eluana è tutti noi

Perchè una legge e perchè no al testamento biologico

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Eluana è tutti noi  Carlo Casini Marina Casini Maria Luisa Di Pietro Società Editrice Fiorentina
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La dolorosa vicenda di Eluana Englaro pone interrogativi inquietanti non solo ai giudici e ai parlamentari, ma anche a tutti noi. Il libro intende offrire risposte facilmente comprensibili e rigorosamente motivate in modo da aiutare la riflessione di tutti, sia a livello politico e giudiziario dove si decide, sia a livello popolare dove si discute e si medita anche personalmente sul senso della vita e della morte.
Nel ricostruire la vicenda di Eluana, nell'esaminare i vari progetti di legge sul "testamento biologico", nel proporre le sfide della libertà, della salute, dell'uguaglianza, della coscienza, il saggio si lascia guidare dalla bussola della dignità umana e dal conseguente principio della indisponibilità della vita.


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Perchè una legge e perchè no al testamento biologico

Carlo Casini, Marina Casini, Maria Luisa Di Pietro



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Introduzione
1.  Eluana, cioè tutti noi

1.1 La vicenda giudiziaria
1.2  Contraddizioni, errori, inquietudini
1.2.1  Perché una fine preceduta dalla fame e dalla sete?
1.2.2  Cambiare la legge sui trapianti d’organi?
1.2.3  Perché un trattamento diverso da altre “non vite”?
1.2.4  “Lasciar morire” o causare la morte?
1.2.5 Dare da bere e dare da mangiare è terapia?
1.2.6  Libertà di decidere senza concretezza e conoscenza?
1.2.7  Discriminazione tra “capaci” e “incapaci”?
1.2.8  È proibito impedire il suicidio?
1.2.9  Per uscire dalle contraddizioni: qual è il significato dell’art. 32 della Costituzione?
1.2.10  Presunzione di voler morire o presunzione di voler vivere?
1.2.11  La dignità umana non è più oggettivamente “inerente” all’esistenza?
1.3  Eluana: cioè tutti noi

2. Prodromi
2.1  Profili definitori
2.1.1  I documenti contenenti le volontà anticipate
2.1.2  Il testamento biologico
2.1.3  Le direttive anticipate
2.1.4  Le dichiarazioni anticipate di trattamento
2.1.5  La programmazione anticipata delle terapie
2.1.6  La procura sanitaria
2.1.7  La storia o anamnesi dei valori
2.2. Dalla “biocard” al “caso Welby”
2.2.1   La “biocard” o “carta di autodeterminazione”
2.2.2  Il “caso Englaro” e il Rapporto Oleari
2.2.3  I pareri del Comitato Nazionale per la Bioetica
2.2.4  Il testamento biologico promosso dalla Fondazione Veronesi
2.2.5  Aspetti internazionali
2.2.6 Il “caso Pretty” e il “caso Schiavo”
2.2.7 Il “caso Welby”

3.  I progetti e i disegni di legge dalla XIII legislatura in poi
3.1. Un lungo cammino
3.2 Esame comparato dei disegni e dei progetti di legge presentati nella XV e nella XVI legislatura
3.2.1  Principali profili di convergenza
3.2.1.1   Il principio di autodeterminazione
3.2.1.2 L’oggetto delle volontà
3.2.1.3 L’efficacia vincolante delle disposizioni
3.2.1.4 Il concetto di incapacità
3.2.1.5 Il fiduciario
3.2.1.6 La facoltatività delle direttive anticipate
3.2.2   Principali profili di divergenza
3.2.2.1 La nutrizione/idratazione artificiale (NIA)
3.2.2.2 Il riferimento all’eutanasia
3.2.2.3 Il riferimento all’indisponibilità della vita umana
3.2.2.4 La tutela della coscienza del medico
3.3 Interrogativi, dubbi, perplessità

4.  I luoghi della sfida
4.1. La libertà
4.1.1 L’indisponibilità della vita altrui
4.1.2 L’indisponibilità della vita propria
4.1.3 La qualità della vita prevale sulla vita?
4.1.4 Il legame tra vita e libertà
4.2. La salute
4.2.1 Il diritto di rifiutare le cure
4.2.2 L’art. 32 della Costituzione: il diritto alla salute non alla morte
4.3. L’uguaglianza
4.3.1 La tesi del testamento biologico come strumento di uguaglianza
4.3.2 Il consenso informato
4.3.3 Rilievo della distanza tra il momento del rifiuto di cure e il momento della decisione sulle cure
4.3.4 Aspetti di discontinuità nel rapporto medico-paziente “competente” o “incompetente”
4.3.5  Lo stato di necessità
4.3.6  Il punto dirimente: il carattere vincolante delle dichiarazioni anticipate
4.3.7 La discriminazione tra la persona disabile e la persona “incompetente”
4.3.8 L’“incompetenza” della donna incinta
4.4. La dignità
4.4.1  Inseparabilità della dignità dall’esistenza umana
4.4.2  Le cure palliative
4.4.3  La nutrizione e l’idratazione artificiali
4.4.4  L’accanimento terapeutico
4.5. La coscienza
4.5.1 Il fondamento giuridico dell’obiezione di coscienza
4.5.2  Il contenuto dell’obiezione di coscienza

Conclusioni
Appendice


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Perchè una legge e perchè no al testamento biologico

Carlo Casini, Marina Casini, Maria Luisa Di Pietro



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Nell’agosto 2007 pubblicammo il saggio "Testamento biologico, quale autodeterminazione?", un testo a carattere divulgativo e quindi di facile comprensibilità, scritto con l’intento di concorrere alla riflessione culturale allora in corso.
Proposte e disegni di legge sul “testamento biologico” sono state presentati fin dalla XIII legislatura (9 maggio 1996 - 29 maggio 2001), ma solo nella XV legislatura, apertasi il 28 aprile 2006, il dibattito parlamentare manifestò una reale possibilità di sbocco in una norma approvata dal Parlamento in coincidenza con l’emergere del “caso Welby” sui mezzi di comunicazione.
Il 5 luglio 2006 aveva segnato la data “ufficiale” dell’inizio dei lavori parlamentari, quando nella XII Commissione permanente del Senato (Igiene e Sanità) fu avviato l’esame dei disegni di legge. Dopo la discussione generale si svolse una lunga serie di audizioni.
Ci parve, allora, utile preparare il nostro saggio, che intendeva fornire argomenti non solo nelle discussioni parlamentari, ma anche in occasione di tavole rotonde, trasmissioni televisive, articoli di giornale, conferenze, incontri.
Nelle conclusioni prendemmo posizione, auspicando che non venisse approvata nessuna legge che introducesse il c.d. “testamento biologico”. Ritenemmo che una disciplina legislativa in materia non fosse necessaria (vi sono già leggi che regolano situazioni chiamate in causa dal “testamento biologico" e non vi sono divieti di alcun tipo per chi volesse, eventualmente, redigere documenti relativi ai propri desideri circa le scelte di fine vita) ed, anzi, ritenemmo che fosse dannosa per le dirette o indirette aperture all’eutanasia. Ritenemmo, infatti che una legge sul “testamento biologico” fosse direttamente eutanasica, qualora alle volontà ivi contenute fosse attribuita efficacia vincolante per il medico anche riguardo al rifiuto di cure proporzionate, adeguate, ordinarie, ovvero “salva vita”; obliquamente eutanasica anche ove ne fosse esclusa la vincolatività, poiché una legge in materia avrebbe sortito l’effetto di indebolire nella coscienza collettiva il valore della vita come valore indisponibile, favorendo situazioni di abbandono del paziente e dei familiari.
Ci parve, peraltro, doveroso segnalare anche la differenza qualitativa tra le “volontà attuali” e le “volontà anticipate”. Le prime, sono espressione di un’autonomia aperta alla relazione che si misura con la situazione reale e concreta di malattia o di disabilità; esse maturano all’interno di un’alleanza terapeutica in cui il medico impegna se stesso dal punto di vista professionale e umano. La comunicazione, l’informazione completa e calibrata sul paziente, l’ascolto dei veri bisogni del malato, la valutazione di tutti i fattori in gioco, la valutazione della malattia o del trauma per quello che veramente sono in quel momento per quella persona, sono tutti elementi che concorrono al formarsi di un consenso o di un dissenso consapevole e responsabile. Le seconde, invece, disancorate dalla situazione oggettiva di malattia o di trauma, al di fuori di una relazione di “alleanza terapeutica” e della reale dimensione psicologica determinata inevitabilmente dalla malattia o dalla disabilità, si allontanano dall’attuazione di un vero e proprio consenso informato finendo per ridurlo – contrariamente agli auspici della dottrina e della giurisprudenza – ad una pratica cartacea, burocratica e amministrativa, rispondente più alle esigenze della medicina difensiva che all’istanza di una reale partecipazione del paziente al progetto terapeutico che lo riguarda. Proprio per evitare questa deriva, sostenevamo l’importanza di non vincolare per legge il medico alla volontà anticipata del paziente, evidenziando come tale vincolatività, sancita legalmente, solo in apparenza si collocava sul terreno del “rifiuto delle cure”, poiché in realtà promuoveva il “diritto a morire” il cui corrispondente sarebbe stato il “dovere” di cagionare la morte.
Nel saggio ricordato contrastammo anche l’idea che il “testamento biologico” fosse lo strumento più adeguato per evitare il c.d. “accanimento terapeutico” – già vietato dal Codice deontologico e dalla buona pratica clinica a prescindere dalla volontà del paziente e/o dei suoi familiari – a meno che non si voglia far definire il concetto di “accanimento terapeutico” dall’autodeterminazione anticipata del paziente oppure di accettare che la vita umana possa essere ritenuta “più” o “meno” degna di essere vissuta. A riguardo riflettemmo che se ciò che conta è solo la volontà individuale, non ha senso parlare di “accanimento terapeutico” come di una situazione che ha una sua fisionomia e, d’altra parte, se il criterio per valutare l’“accanimento terapeutico” è un giudizio sulla vita umana ritenuta “degna” o “non degna”, allora si introducono e si agevolano teorie e pratiche di discriminazione tra esseri umani.
Infine, sottolineavamo come l’affievolimento del principio di indisponibilità della vita umana, dovuto alla perdita del riconoscimento sociale dell’intrinseca e uguale dignità di ogni essere umano, può facilmente condurre ad allargare il terreno dell’“incapacità decisionale” collocandovi la vulnerabilità e la fragilità umane legate alla malattia, al decadimento psico-fisico, alla disabilità. In realtà, anche in queste situazioni emergono istanze e bisogni profondi che chiedono solidarietà e non abbandono o discriminazione.
A questo punto, è il caso di riportare alcuni passaggi che riassumevano la nostra posizione: «1) Non è giusto né opportuno approvare una legge per introdurre nel nostro ordinamento un documento di fine vita con effetti vincolanti per il medico; 2) la sola disciplina che ne eviterebbe l’ingiustizia potrebbe essere quella suggerita dal CNB nel parere del 2003, ma in definitiva anch’essa, in quanto sostanzialmente inutile, è inopportuna […].
Certamente, lo si è detto più volte, l’“alleanza terapeutica” esige dialogo, colloquio, confronto, immedesimazione nella situazione del paziente, ma non obblighi di obbedienza che violano il senso stesso della professione medica. Per questo il CNB ha cercato di compiere il massimo sforzo possibile di mediazione. Il punto decisivo è, dunque, l’esclusione di ogni vincolatività delle dichiarazioni anticipate. Ma, bisogna riconoscere che allora, senza la vincolatività, le dichiarazioni anticipate divengono – come già detto – sostanzialmente inutili, perché già ora, senza bisogno di adempimenti burocratici, ognuno può scrivere, nella forma che vuole, consegnandole a chi vuole, dichiarazioni che riguardano il suo futuro sotto il profilo sanitario.
Le varie proposte di legge sul testamento biologico non solo considerano – come già detto – la persona in modo avulso da qualsiasi contesto affettivo, ma gli negano anche quell’amore e quella solidarietà che sono più forti proprio di fronte alla malattia e alla sofferenza. Trasformare il medico in un burocrate, preoccupato esclusivamente di difendersi, è un ulteriore aggravamento della solitudine di fronte alla morte.
La risposta ad un bisogno deve essere ben diversa.
Da una parte, occorre tutelare gli interessi del paziente, aiutando i medici ad approfondire il senso della propria professione e a sviluppare la capacità di discernimento tra scelte contrarie alla dignità dei pazienti e dovere di assicurare loro un reale beneficio medico, anche laddove non è più possibile guarire. Dall’altra, occorre intervenire a livello sociale per dare voce alle istanze solidaristiche dei moderni orientamenti civili e democratici, e, a livello culturale, per fare un’informazione “non orchestrata” e in grado di rispettare le persone senza suscitare sgomento e paura.
È ormai avviato un dibattito che continua senza sosta e che ai “no” al “testamento biologico” vuole opporre il “sì” al rispetto della persona, al suo sostegno nelle condizioni di massima fragilità, al dovere di prendersi cura anche laddove non è più possibile guarire. Queste nostre tesi sono state sviluppate in coerenza sia con quanto sostenuto dall’Associazione “Scienza e Vita” nel corso di una campagna di formazione/ informazione Né accanimento né eutanasia, svoltasi tra il 28 novembre 2006 e il 5 dicembre 2006 in tutta Italia, che ha visto il susseguirsi di 50 eventi, sia con il Manifesto per il coraggio di vivere e di far vivere promosso all’inizio del 2007 dal Centro di Ateneo di bioetica dell’Università Cattolica, sostenuto anche da diverse personalità del mondo scientifico».
Poi, peraltro, il dibattito è andato spegnendosi. La XV legislatura si è avviata verso una fine prematura ed altri argomenti hanno occupato la riflessione politica.
Con l’apertura della XVI legislatura (29 aprile 2008) sembrava che la questione del “testamento biologico” non fosse immediatamente a tema e che di esso, per un po’ di tempo, non si sarebbe più parlato. Tuttavia, la già nota storia di Eluana Englaro, è stata ripresentata con forza all’intera società in seguito a due ultime decisioni giudiziarie e così il dibattito si è prepotentemente riaperto. Nei confronti di Eluana, in “stato vegetativo” a causa di un incidente stradale avvenuto nel 1992, la Corte d’Appello di Milano, con decreto del 9 luglio 2008, ha autorizzato il distacco del sondino naso-gastrico che ne consente l’alimentazione e l’idratazione con la inevitabile conseguenza della morte “per fame e per sete” (secondo la sintetica espressione usata dall’Associazione “Scienza e vita”). Per vero, il decreto della Corte d’Appello era già largamente prevedibile in base ad una precedente sentenza della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007 n. 21748, l’ottava decisione giudiziaria intervenuta sul caso Englaro. La Cassazione, annullato un precedente rigetto della istanza presentata dal padre di Eluana, aveva ordinato alla Corte di Milano di accertare se le dichiarazioni di Eluana, «prima di cadere in stato di incoscienza», «valessero […] a delineare […] la sua personalità e il suo modo di concepire […] l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive» e quindi «se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia». La Cassazione indica poi i due noti – discussi e discutibili – criteri ai quali la Corte di II grado dovrà attenersi nella decisione: l’irreversibilità della condizione e la documentata volontà del soggetto espressa anteriormente. Tuttavia, la sentenza della Corte di Cassazione, per quanto drammaticamente importante fosse il suo contenuto, aveva colpito moderatamente l’opinione pubblica. I principi in essa stabiliti apparivano astratti e lontani. Viceversa, il successivo recente provvedimento della Corte d’Appello, immediatamente esecutivo, ha posto dinanzi agli occhi di tutti l’immagine di questa giovane distesa in un letto da 16 anni, che respira spontaneamente, il cui cuore batte senza bisogno di alcun aiuto, le cui funzioni vitali sono integre, ad eccezione di quelle della deglutizione, che dorme e si sveglia, che muove gli occhi, ma che non risponde agli stimoli esterni e che – dicono – non può avere alcuna coscienza di ciò che accade intorno a lei. Una giovane inerme e indifesa, la cui morte può intervenire in qualsiasi momento se qualcuno compie la facilissima mortale operazione, divenuta lecita per decisione giudiziaria, di sfilare il sondino naso-gastrico.
In qualche modo è parso che la vita e la morte di Eluana, poste nelle mani di un medico e in quelle del suo padre tutore, siano in realtà nelle mani di tutti noi.
Giuliano Ferrara ha dato espressione a questa commozione con l’invito a collocare sul sagrato della Cattedrale di Milano bottiglie d’acqua, quasi a dire: «Noi popolo della vita vogliamo dare da bere ad una ragazza la cui gravissima disabilità le impedisce di bere. Noi vogliamo che essa non sia lasciata morire (uccisa…) per fame e sete». Un commovente gesto simbolico che può non cambiare il corso degli eventi. Altri hanno formulato appelli generici sui giornali, oppure appelli diretti al padre di Eluana. Diversi appelli sono stati rivolti anche alla Procura Generale di Milano (così, in forma ufficiale, il Movimento per la vita italiano1), perché facesse un ulteriore tentativo di bloccare l’esecuzione della “condanna a morte” con un nuovo ricorso alla Corte di Cassazione onde ottenere l’annullamento del decreto emanato il 9 luglio 2008.
L’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ha proposto un’altra strada, seguita dalla maggioranza della Camera e del Senato con votazioni effettuate il 31 luglio e il 1° agosto 2008. Si tratta della strada che affida alla Corte Costituzionale il giudizio sulle controversie tra poteri dello Stato (art. 134 Cost.). I poteri dello Stato sono quelli che già Montesquieu aveva definito come potere legislativo, giudiziario, amministrativo. Si ha un conflitto quando un potere invade il campo di un altro (conflitto positivo), ovvero quando un potere rifiuta di adottare un certo provvedimento ritenendolo di competenza di una altro potere, che invece rifiuta anch’esso di prenderlo (conflitto negativo).
Nel caso di Eluana, secondo la tesi prospettata da Cossiga e accolta dal Parlamento, si sarebbe verificato un conflitto positivo tra potere giudiziario e potere legislativo, perché stabilire la liceità della sospensione della idratazione-alimentazione di un malato in “stato vegetativo”, non sarebbe competenza del potere giudiziario, ma di quello legislativo. La Cassazione e la Corte d’Appello di Milano avrebbero invaso un campo – la disciplina del rapporto medico-paziente e il riconoscimento al secondo del “diritto” di decidere la propria morte o comunque la sospensione di trattamenti “salva vita” – che apparterebbe soltanto al Parlamento. Gli organi giudiziari non avrebbero svolto la loro tipica funzione di applicare e interpretare la legge, ma avrebbero creato la legge.
Questa tesi, per come è stata prospettata all’opinione pubblica, si basa sull’idea del “vuoto legislativo”: mancherebbe in Italia una normativa sulle questioni c.d. di “fine vita”, in particolare per quanto riguarda la decisione di porre fine alla vita attraverso il “rifiuto delle cure”. Solo il potere legislativo potrebbe riempire tale vuoto, se lo ritiene opportuno e nel modo che ritiene opportuno.
Così motivata, la tesi del conflitto di attribuzione ci lascia perplessi.
Va osservato, in primo luogo, che in un ordinamento giuridico non esistono “vuoti legislativi”. Vi è, infatti, il principio generale della completezza dell’ordinamento: «tutto ciò che non è vietato è permesso». Perciò, se fosse vero che manca una regola giuridica per sapere se è lecito o no «far morire Eluana di fame e di sete», allora vorrebbe dire che la decisione del padre-tutore di togliere il sondino naso-gastrico e il conseguente comportamento del medico sarebbero del tutto leciti.
In realtà non è così, perché si potrebbe sostenere che esiste una legge che riguarda il caso di Eluana: è il Codice penale che punisce chiunque cagiona la morte di un uomo anche nel caso in cui la vittima è d’accordo o addirittura chiede il gesto che le toglie la vita. L’art. 579 c.p. punisce l’«omicidio del consenziente». Secondo questa tesi la Corte di Cassazione e la Corte d’Appello di Milano, attribuendo al consenso presunto del paziente l’espressione di un “diritto a morire”, avrebbero scriminato il gesto del medico che cagiona la morte di Eluana interrompendo nei suoi confronti l’alimentazione e l’idratazione. In questo modo, però, le due Corti non avrebbero interpretato la legge, ma avrebbero abrogato in parte l’art. 579 c.p. introducendo una causa di giustificazione prima non prevista, riconfigurando l’art. 579 c.p. più o meno in questi termini: «Chiunque cagiona la morte di un uomo col consenso di lui, è punito […] salvo che il consenso, sia pure in forma anticipata, sia stato prestato da un soggetto la cui malattia o disabilità è ritenuta senza possibilità di guarigione o di recupero». Del resto, è facile constatare come l’art. 579 c.p. sia il bersaglio diretto dei sostenitori del “diritto a morire”. A riguardo, è significativo che il Tribunale di Roma, dichiarando il non luogo a procedere nei confronti del medico che ha staccato il respiratore a Welby, abbia invitato il legislatore a «ridisegnare […] i limiti della fattispecie di cui all’art. 579 c.p. […] escludendo esplicitamente l’ipotesi del medico che, ottemperando la volontà del paziente, cagioni la morte di quest’ultimo, mentre una previsione incriminatrice così ampia ingloba necessariamente anche questo caso».
Tuttavia, i giudici della Cassazione e della Corte di Appello di Milano hanno fatto leva sull’art. 32 della Costituzione considerato come norma immediatamente precettiva e quindi limitante il disposto dell’art. 579 c.p. Inoltre, non hanno ritenuto che il gesto di far cessare l’alimentazione e l’idratazione cagioni direttamente la morte. Noi dissentiamo profondamente da questa interpretazione, ma non possiamo negare che si tratta di una interpretazione giudiziaria, la quale, in quanto giudiziaria, non ha i caratteri della generalità e dell’astrattezza propri della legge. Perciò, in secondo luogo, è discutibile che possa delinearsi un conflitto di attribuzioni, perché la decisione dei giudici non ha una portata normativa oltre il caso singolo. I tribunali in futuro potrebbero pervenire a decisioni diverse, anche se è evidente la forza del precedente giudiziario. In ogni caso, il Parlamento resta libero di legiferare senza alcun vincolo.
In effetti, la Corte Costituzionale l’8 ottobre 2008, con l’ordinanza n. 334, ha seguito questo ragionamento ed ha conseguentemente dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi per conflitto di attribuzione. Laconicamente ha aggiunto: «la vicenda processuale che ha originato il presente giudizio non appare ancora esaurita, e, d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio tra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».
Anche da questa ultima ordinanza della Corte Costituzionale, come si vede, deriva un prudente invito a legiferare rivolto al Parlamento.
Resta la strada del ricorso per Cassazione. L’impugnativa è stata proposta dalla Procura Generale di Milano sotto il profilo di un difetto di motivazione del decreto della Corte d’Appello. Nella motivazione è dato per scontato il carattere assolutamente irreversibile della condizione di Eluana e non sono disposti accertamenti peritali per verificare qual é la situazione attuale della donna e quale potrebbe essere l’eventuale evoluzione dei deficit funzionali…
Se, dunque, la Corte di Cassazione accoglierà il ricorso, dovrà annullare il precedente decreto della Corte d’Appello e rinviare di nuovo il dossier a Milano per l’esecuzione di un accertamento peritale, il cui esito è quanto meno assai incerto.
È possibile che l’accoglimento del ricorso determini un rinvio della morte di Eluana, ma senza risolvere il caso alla radice, soprattutto senza fissare garanzie di tutela del diritto indisponibile alla vita in molti altri casi.
Se, viceversa, il ricorso viene rigettato, non vi sarebbe scampo per Eluana, sempreché non muoia prima per eventi naturali, restando immodificato il precedente decreto esecutivo che autorizza l’interruzione dell’alimentazione-idratazione mediante il sondino.
Ancora una volta nell’uno e nell’altro caso chi vuole salvare Eluana può auspicare, come rimedio ultimo, un intervento legislativo.
La riflessione fin qui svolta mostra che la situazione è cambiata dopo il decreto del 9 luglio 2008 della Corte d’Appello di Milano. Quanto già abbiamo scritto nel precedente saggio Il testamento biologico, quale autodeterminazione?, deve essere attualizzato e applicato al caso di Eluana, con una pretesa ancora più forte di contribuire al dibattito, che è entrato in una fase estremamente viva a livello popolare, mediatico, giuridico, politico, legislativo.
La situazione è complicata per l’intersecarsi di due esigenze non sovrapponibili dal punto di vista della strategia da adottare. Un conto è resistere alle tendenze eutanasiche che vorrebbero aprire una breccia attraverso il “testamento biologico”; un altro è intervenire con urgenza per salvare una vita in imminente pericolo. Nel primo caso una ragionevole tattica può essere quella di non prendere in considerazione fin dall’origine le proposte di sapore eutanasico e perciò di evitare o almeno di ritardare un dibattito parlamentare provocato da proposte sul “testamento biologico”. Nel secondo caso, al contrario, il dibattito parlamentare può apparire una soluzione pericolosa, ma obbligata e doverosamente rapida.
Come conciliare le due esigenze?
Questo saggio intende offrire una risposta, cominciando ad esaminare attentamente le due decisioni che hanno decretato la “condanna a morte” di Eluana, in modo da evidenziare le contraddizioni che, in certo modo, rivelano le inquietudini e un certo imbarazzo degli stessi giudici. Questa parte può essere utile – lo speriamo – anche ai giudici della Corte di Cassazione che devono ancora prendere posizione. Sotto questo profilo, con un’ambizione che speriamo non impropria, consideriamo questo volume come una sorta di intervento “ad adiuvandum” per sostenere da un lato il ricorso della Procura Generale di Milano, dall’altro quello del Parlamento sul conflitto di attribuzioni.
Il nostro proposito è di unire al rigore giuridico delle argomentazioni una capacità espositiva che renda le questioni comprensibili a tutti le questioni, evitando, perciò, il tecnicismo delle parole.

Non si può nascondere l’estrema complessità dei problemi legati alla morte.
I progressi della scienza medica se da un lato hanno permesso di guarire o di cronicizzare malattie una volta letali, dall’altro hanno introdotto situazioni prima impensabili come, per esempio, quella che consente il prelievo da un cadavere di organi e tessuti. L’attivazione di macchine permette al cuore e ai polmoni di funzionare in un corpo totalmente e irreversibilmente privo del principio unificatore e coordinatore dell’organismo garantito dall’encefalo: l’apparenza di “vita”, che si ha in questo caso, è diversa dalla realtà di “morte”.
Si aggiungono così nuovi problemi a quelli di sempre.
L’umanità fin dall’alba della storia si è misurata con il pensiero della morte. Non a caso le prime tracce di una presenza intelligente sulla terra sono le sepolture scoperte dagli archeologi.
C’è chi ha pensato alla morte come liberazione che, sia pure come “Nemica assoluta”, come «baratro immenso» (Leopardi, ne Il canto del pastore errante) determina la fine del male più grave, la vita, appunto. («È funesto a chi nasce il dì natale», ancora Leopardi nello stesso canto).
Anche prima del cristianesimo, la morte era sognata talora come una porta verso una vita più ricca e piena. Ne sono testimonianza le tombe dell’antico Egitto costruite come sontuose abitazioni di chi vive la “vera vita”. Talvolta il pensiero della morte, senza arrivare al pessimismo leopardiano, può aver determinato una sottovalutazione della vita in questo mondo. Tuttavia oggi non ci sono più monaci che tengono un teschio sul tavolo della loro cella e la Chiesa cattolica, il primo mercoledì di Quaresima, spargendo cenere sul capo dei fedeli, non ripete più il «memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris» («ricorda uomo che sei polvere e che in polvere ritornerai»).
Nella meditazione cristiana moderna il pensiero della morte non deve soltanto far sperare nell’“al di là”, ma deve rafforzare anche il valore del tempo e dell’impegno “di qua”. In questo l’antropologia cristiana si incontra con l’umanesimo. Perché quest’ultimo sia veramente laico, ovvero razionale, e quindi capace di interrogarsi sul senso della vita, non può escludere il mistero. Ma, in fondo, è proprio questa l’affermazione fondativa della modernità, quale si è espressa nelle carte che celebrano la grandezza dell’uomo al fine di appoggiare su di essa ogni speranza umana e cioè la giustizia, la pace, la libertà di tutti. Parole come “dignità” e “uguaglianza” sono in effetti misteriose perché non sono sperimentabili con l’uso dei sensi che condividiamo con gli animali. Esse sono intuite e dimostrate, come dice Giovanni Paolo II, sulla base di una “ragione profonda”.
Questa “ragione profonda” si è espressa proprio nella modernità con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che della dignità, dell’eguaglianza e del diritto alla vita di ogni membro della famiglia umana fa il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.
La riflessione sull’indisponibilità della vita umana deve misurarsi con la dottrina dei diritti dell’uomo. Il principio di indisponibilità della vita umana è strettamente collegato con essa. Grande deve essere, dunque, la vigilanza per evitare inganni e adattamenti della ragione. La tendenza eutanasica deve essere smascherata anche laddove si presenta con il volto mite del “testamento biologico” e cioè della libertà, dell’autonomia, del consenso informato, del rifiuto delle cure.
Per questo dedichiamo una seconda parte di questo saggio all’esame dei progetti di legge sul “testamento biologico” presentati in Parlamento ed una terza parte all’approfondimento di quei valori – libertà, salute, eguaglianza, dignità, coscienza – che vengono spesso invocati per chiedere la morte e che, invece, secondo noi, costituiscono proprio il campo per una sfida in favore della vita che deve essere raccolta anche di fronte alla malattia, alla disabilità e alla morte.
Vorremmo che la complessità della materia ci suggerisse quanto meno di seminare inquietudine e dubbi. Tuttavia, lo scopo pratico e immediato del nostro lavoro ci impone nelle conclusioni di prendere una precisa posizione. Poiché il punto di partenza è Eluana, ci è apparso opportuno pubblicare in appendice le parti più significative della sentenza 16 ottobre 2007 della Cassazione.
Naturalmente non sappiamo quale sarà la decisione della Suprema Corte di Cassazione. Non sappiamo, perciò, se questo nostro lavoro riuscirà a salvare la vita di Eluana. O se Eluana morirà prima per cause naturali. Sappiamo, però, che nelle condizioni di Eluana si trovano migliaia di altre persone e che tutti, o prima o poi, possiamo trovarci nelle stesse condizioni della giovane donna di Lecco o in altre simili, anche se di diversa o minore gravità. Speriamo, perciò, che la nostra fatica non sia comunque inutile.
Infatti, in certo modo, Eluana è tutti noi.


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